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Misurare la flessibilità degli atleti per migliorare le performance

30 Novembre 2020 by Maurizio Tripodi

Misurare la flessibilità. Teast di Sit and reach
Nell'immagine l'atleta Alice Minuzzo che esegue il sit-and-rich-test. Realizzata da Sistemha 

 

"L’allenamento è un’arte che si basa sulla scienza … ed un allenamento senza valutazione è un itinerario senza meta."
Carmelo Bosco

Perché misurare la flessibilità dei nostri atleti

La flessibilità è una di quelle capacità motorie che spesso non vengono considerate fondamentali per la performance atletica, ma l'assenza di questa non permetterebbe alle altre capacità di esprimersi al meglio.

In atletica leggera abbiamo discipline dove avere una buona flessibilità è fondamentale al fine del risultato sportivo.

Infatti, avere una ridotta flessibilità non permetterebbe all'atleta di esprimere tutto il suo potenziale, per questo dobbiamo considerarla una capacità fondamentale ai fini di un’ottima performance sportiva.

Spesso gli atleti che partecipano a determinate discipline arrivano tra le mani del tecnico con un bagaglio genetico che li porta ad avere una buona flessibilità di base, ma questo non deve farci pensare di trascurare l'argomento.

Sappiamo con certezza che l'allenamento influisce sulla flessibilità del soggetto maggiormente della genetica.

Immaginate due gemelli, e quindi due soggetti con lo stesso patrimonio genetico, e immaginate che uno pratichi ginnastica artistica e l’altro basket: pensate che abbiano la stessa flessibilità?

Per migliorare è importante valutare il punto di partenza

Non esiste ad oggi una modalità per misurare la "flessibilità generale" di un soggetto.

La flessibilità è una capacità che identifica la libertà di movimento di una o più articolazioni, e per questo non ci basterà un solo parametro per avere un’idea dell'atleta che si ha davanti.

Sicuramente vi sarà capitato di conoscere atleti che mostrano grandi gradi di libertà di movimento degli arti inferiori a discapito di una grande rigidità della parte superiore.

Oppure, per esperienza ancora più frequente, soggetti che hanno una limitata flessibilità degli arti inferiori e un’eccessiva flessibilità del tratto lombare, condizione che spesso porta a problemi di colonna.

Come misurare la flessibilità?

Essendo una capacità che è "articolazione dipendente", per ogni articolazione o gruppo di articolazioni è previsto un test differente.

Naturalmente, saranno comparabili solo i test che vengono effettuati sulla stessa articolazione con la medesima misurazione.

Parlo di medesima misurazione, perché abbiamo la possibilità di misurare la flessibilità in due modi: i gradi angolari oppure le misure lineari.

Vi faccio un esempio

Per misurare la flessione di un ginocchio possiamo usare un goniometro per rilevare i gradi della massima flessione e massima estensione, deducendone così i gradi di ROM (range of movement) dell'articolazione; per misurare la flessibilità della catena posteriore possiamo usare i centimetri lineari, che separano le punte delle dita della mano dalle punte delle dita dei piedi in un esercizio come il sit and rich (Immagine in alto).

Questa misura ha il compito di dare un parametro di flessibilità delle articolazioni interessate in quello specifico movimento.

Quindi, la prima cosa che deve fare il tecnico è identificare quali articolazioni o gruppo di articolazioni è più intelligente monitorare, al fine della performance che dovrà esprimere l'atleta.

Non esistono ad oggi parametri che ci consentano di dire che per una disciplina sia più intelligente misurare un’articolazione piuttosto che un’altra.

Sarebbe vantaggioso capire quale articolazione misurare per ogni specifica disciplina, ma per fare questo bisognerebbe avere un gruppo di tecnici di disciplina che si impegnano a scambiarsi le informazioni necessarie ad identificarle (tecnici de ilcoach.net mi metto a disposizione se foste interessati a questa ricerca).

Molto probabilmente, l'ideale sarebbe costruire una batteria di test che possano dare una visione il più precisa possibile della flessibilità dell'atleta in analisi.

È anche per questo motivo che non esiste una standardizzazione universalmente riconosciuta del test di flessibilità più utilizzato, il sit-and-rich-test. Infatti, differenti agenzie mostrano protocolli differenti nell’esecuzione della misurazione.

Per questo, non penso che il tecnico si debba troppo soffermare su come effettuare la misurazione, meglio dedicarsi all'analisi di evoluzione del dato.

Quando misurare la flessibilità?   

Una volta identificati i test che riteniamo più utile svolgere, vi raccomando di effettuarli in condizione di riposo o dopo un leggero riscaldamento (e di usare sempre la medesima prassi).

Chiunque abbia praticato sport sa che fare lo stretching all'inizio dell'allenamento o prima della gara, permette di raggiungere range articolari impossibili da raggiungere al termine dell’allenamento o della gara.

Svolgere i test all'inizio dell'allenamento renderà sicuramente più valido il dato estrapolato.

La flessibilità è una capacità che possiede la caratteristica di variare molto velocemente, quindi ricordate che la misurazione che state svolgendo è la fotografia di quell'istante, e non rappresenta sicuramente la flessibilità di quel soggetto in un periodo di tempo lungo.

Pensate a quando un vostro atleta subisce un piccolo infortunio o quando è affaticato per via del carico di allenamento dei giorni precedenti; in questi casi si sono subite delle riduzioni di flessibilità (che chi ha fatto l'atleta conosce bene).

E quindi, quando misurarla per avere un dato utile al tecnico e alla programmazione del lavoro?

A mio avviso, la scelta di quando e come misurare la flessibilità, deve andare di pari passo a quella che è la programmazione e la periodizzazione del lavoro che avete impostato.

Ogni disciplina ha le sue caratteristiche e queste richiedono programmazioni e allenamenti molto diversi tra loro.

Per questo non mi permetto di dare delle indicazioni che potrebbero essere perfette per alcuni e sbagliate per altri.

Pensando a un’operazione di monitoraggio continuativa, potrebbe essere interessante svolgere 2/3 semplici test tutte le settimane. I test dovranno avere la caratteristica di poter essere svolti dall'atleta in maniera autonoma, cosi da non perdere tempo. Al campo si va per allenarsi, non per misurarsi continuamente. Un monitoraggio di questo genere potrebbe darci delle indicazioni continue sullo stato del nostro atleta.

Conclusioni

Per rispondere con coerenza alle domande: perché, come e quando misurare la flessibilità, dobbiamo prima fare un’operazione di monitoraggio collettivo.

Ad oggi, non abbiamo abbastanza dati per indicare delle linee guida; è compito di noi tecnici e trainer costruire un database che possa dare delle risposte a questi quesiti.

Io e la mia struttura ci mettiamo a disposizione se un gruppo di tecnici si volesse mettere in gioco per cominciare quest’avventura.

Ritengo non sia difficile grazie alle nuove tecnologie, tutto sta nel mettersi in gioco, e a far questo, chi si occupa di sport, dovrebbe essere capace!

Letture consigliate

Stretching e flessibilità. Teoria, tecnica e didattica

Maurizio Tripodi

Prof. Maurizio Tripodi

Laureato Magistrale Scienze Motorie | Professore Università Cattolica di Milano
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5 esercizi di stretching dinamico per i runners

2 Maggio 2019 by Redazione

5 esercizi Stretching-dinamico-768x435

Fare lo stretching prima di corre va bene? Stretching dinamico, statico o balistico? Cosa è meglio?

Queste sono le domande che più spesso mi pongono gli amici runners. La risposta richiederebbe molto tempo, comincio con il raccontarvi quali esercizi di stretching dinamico sono idonei a un runners che si appresta a fare una competizione dove vuole migliorare la sua performance.

Stretching dinamico. Perché è importante la flessibilità in un runners?

Pensate al vostro organismo come un motore automobilistico, sapete bene che ci vuole un pò a scaldarlo prima che possa rendere al massimo, e sapete anche che un motore ben lubrificato permette meno attriti e dispersioni di energia.  Ecco la flessibilità nel runners è come l'olio nel motore di un auto, permette di risparmiare energie a parità di lavoro effettivamente svolto.

Meno attriti = meno fatica di movimento

5 esercizi di stretching dinamico per i runners

Di seguito vi presento 5 esercizi di stretching dinamico utili a prepararci all'attività di corsa. Questi hanno lo scopo di allungare i muscoli e le catene muscolari utilizzate mentre si corre. Non devono essere visti come esercizi che possono prevenire infortuni, ma come esercizi utili a preparare i nostri muscoli alla performance. Sono pensati per essere inseriti nel riscaldamento di qualunque corridore, dal velocista al maratoneta.

Allungamento dinamico dei flessori del ginocchio

Il rialzo deve permettere di mettere in tensione il vostro muscolo, quindi trovate un rialzo dell'altezza adatta a quella che è la vostra flessibilità. lo stretching non è una gara a chi fa di più, ma a chi lo fa meglio, trovate la vostra tensione ideale, quella che vi consente di percepire la tensione senza alcun disconfort.

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Allungamento dinamico degli adduttori

Vale lo stesso appunto dell'esercizio precedente. regolate l'altezza del rialzo, alcuni soggetti posso anche eliminarlo del tutto.

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Allungamento dinamico del tricipite della sura

caricare una gamba cercando con il tallone il terreno, cosi da allungare il polpaccio. Spostare il peso da una gamba all'altra in maniera ripetuta ma non rapida.

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Allungamento dinamico rotatori esterni dell'anca

Non è necessario avere il rialzo, si può anche svolgere con il piede ed il ginocchio della gamba dietro a terra. Chi corre sa che durante il gesto della corsa, i rotatori interni ed esterni di anca partecipano attivamente per consentirci di eseguire un corretto gesto.

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Allungamento dinamico rotatori interni dell'anca

Se svolgere questo esercizio vi è particolarmente difficoltoso, vi suggerisco di darci dentro con l'allungamento. Per esperienza personale molti soggetti che presentano problemi di colonna o di anca, spesso sono molto in difficoltà nello volgere questo esercizi (c'è anche una motivazione logica del perché ciò accade). Quindi cerchiamo di prevenire, e state all'occhio.

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Per concludere

Tutti questi esercizi suggeriamo di svolgerli per 2 serie da 10 ripetizioni, tutti gli esercizi vanno svolti a una velocità idonea e non troppo rapida. Evitate di rimbalzare quando arrivate al limite dell'allungamento muscolare (altrimenti state facendo stretching balistico, di quello parliamo un altra volta). Noi quando abbiamo pensato a questi 5 esercizi, abbiamo pensato a un runner che si appresta ad una gara, ma utilizzati anche in allenamento vanno benissimo, sempre dipende da qual è l'obiettivo che avete quel giorno di allenamento.

Questi esercizi non hanno la pretesa di essere la soluzione definitiva al vostro riscaldamento ideale, ma potete utilizzarli tranquillamente come spunto per arricchire il vostro riscaldamento. Per ogni atleta il suo esercizio!

Come sempre buon allenamento!

Maurizio Tripodi

Prof. Maurizio Tripodi

Laureato Magistrale Scienze Motorie | Professore Università Cattolica di Milano
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I 5 esercizi di stretching statico per prevenire la sindrome della bandelletta

29 Aprile 2019 by Redazione

stretching bandelletta

La sindrome della bandelletta ileotibiale, chi corre sa di cosa sto parlando. Si tratta di un dolore che lamentano i runners e i saltatori sulla parte laterale del ginocchio, questo spesso arriva a non permettere di correre. Si tratta di una infiammazione che colpisce la fascia connettivale del tensore della fascia lata, molto spesso causata da un cattivo equilibrio muscolare di anca e caviglia.

Sindrome della bandelletta ileotibiale: quali le cause?

Questo tipo di problematica è definibile come infortunio da over-use, cioè causato da un continuo utilizzo che ha portato a questa infiammazione da sovraccarico. Sarebbe più corretto dire che è un infiammazione da "sovraccarico mal distribuito", perché non è tanto il "quanto correte" che accumula l'infortunio, ma il "come correte" che è la causa dell'infiammazione.

Vi suggerisco di riguardare l'articolo sul ciclo cumulativo dell'infortunio

5 esercizi di stretching statico per prevenire la sindrome della bandeletta

Qui di seguito, vi mostreremo 5 esercizi di stretching statico, utili a mantenere una corretta lunghezza dei muscoli solitamente retratti nei  soggetti predisposti a questo infortunio da over-use.

Questi esercizi servono a "prevenire", quindi bisognerebbe mettersi nell'ottica di farli quando si sta bene, e non quando i primi sintomi del problema sono già comparsi.

Al comparire dei primi dolori,  è meglio cominciare con un allenamento terapeutico fatto su misura per voi, e per questo vi chiedo di contattare qualcuno che possa darvi una mano a riguardo, improvvisare o seguire un protocollo standard non sempre da i risultati voluti. Non starò a descrivere con minuziosità gli esercizi che sicuramente già conoscete, ma vi darò delle dritte per renderne più efficace l'esecuzione.

Per comprendere meglio la differenza tra le varie metodiche di stretching guarda l'articolo Stretching: la nostra guida

Allungamento degli adduttori 2 serie da 30 secondi

Portare il carico su una gamba mandando in allungamento l'adduttore opposto, variare la posizione del tronco da piu flessa (in foto) a più estesa, aiuta ad allungare tutta la muscolatura interessata all'adduzione.

Prevenire la bandelletta ileotibiale. Allungamento degli adduttori 2 serie da 30 secondi

Allungamento del gastrocnemio 2 serie da 30 secondi

Non spingete il muro! non serve. Messi in posizione i piedi,  portare avanti il bacino, questo porta ad una flessione dorsale passiva della caviglia causando l'allungamento del gastrocnemio. Spingere il muro è fatica sprecata. Ricordatevi che per fare stretching non bisogna fare fatica, ma bisogna essere in uno stato di rilassamento.

Prevenire la bandelletta ileotibiale. Allungamento del gastrocnemio 2 serie da 30 secondi

Allungamento del quadricipite 2 serie da 30 secondi

Quando svolgete questo esercizio portate sempre attenzione a due cose :

  1. il rapporto tra le due ginocchia (devono essere vicine tra loro) ;
  2. l'atteggiamento del bacino (più sarà retro-verso più manderà in tensione i flessori dell'anca).

Questi due riferimenti vi daranno una mano a modulare la tensione.

Allungamento quadricipiti - 2 serie da 30"

Allungamento hamstring 2 serie 30 secondi

Appoggiatevi se avete difficoltà a mantenere questa posizione, se c'è contrazione non possiamo rilassare. Una volta messo il piede sul rialzo, ruotare il tronco verso la gamba flessa. Variare la posizione del piede di appoggio per cambiare il livello di tensione, più è intra-ruotato più mandiamo in tensione il bicipite.

Allungamento del bicipite femorale 2 serie da 30 secondi

Allungamento ileo-psoas 2 serie 30 secondi

Non pensate ad avanzare senza prima aver mandato in retroversione il bacino. La retroversione vi permette un miglior allungamento in estensione di anca. Non è corretto sdraiarsi in avanti, manderebbe in anti-versione il bacino flettendo l'anca.

Prevenire la bandelletta ileotibiale. Allungamento ileopsoas 2 serie da 30 secondi

Per concludere

Questi esercizi costano 10 minuti, suggerisco di farli prima di una sessione di allenamento, questo permette di rendere efficace l'effetto inibitorio che ha lo stretching statico su i muscoli allungati.

Se lo scopo è prevenire la sindrome della bandelletta ileotibiale dobbiamo allenarci in condizioni ottimali, questo richiede un riscaldamento mirato. Ricordatevi che questi esercizi sono preventivi e non terapeutici, se il ginocchio fa male, fatevi vedere da un professionista che possa aiutarvi.

Buon allenamento a tutti

Maurizio Tripodi

Prof. Maurizio Tripodi

Laureato Magistrale Scienze Motorie | Professore Università Cattolica di Milano
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Corse ad ostacoli: la prevenzione degli infortuni

11 Ottobre 2016 by Redazione

Martina hs nave

In questo articolo pubblichiamo la Tesi di Laurea in Scienze Motorie di Michela Pellanda, ostacolista dell'Atletica Brescia 1950, specializzata nei 400hs.

Ecco la sua Tesi di Laurea da titolo :

"LA PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI NELLE DISCIPLINE AD OSTACOLI DELL’ATLETICA LEGGERA"

Vista la lunghezza della tesi, è stato inserito un indice con i nomi dei capitoli, ogni capitolo presenta un link che rimanda al contenuto specifico. Buona lettura e buono studio!!!

Introduzione

Le corse ad ostacoli dell’atletica leggera

Analisi biomeccanica della corsa e del passaggio dell’ostacolo

Infortuni ed ostacoli

Prevenzione degli infortuni

Conclusioni ed indicazioni pratiche per l'allenamento

Bibliografia

Ringraziamenti

 

INTRODUZIONE

Prevenire significa ridurre il più possibile il rischio di infortunio mantenendo alta la performance dell’atleta.

Per prima cosa quindi bisogna analizzare la prestazione dell’atleta, analizzando il gesto (o i gesti) atletico che compie durante le sedute di allenamento e in gara.

All’interno di questa analisi non dobbiamo tralasciare la frequenza (numero di sedute a settimana/mensili) e la varietà degli allenamenti (seduta di pesi, sedute di corsa, sedute di tecnica di ostacoli, ecc.) il luogo dove l’atleta si allena e le tipologie del terreno (pista, asfalto, erba, sintetico, ecc.).

Tutte le discipline dell’atletica leggera sono classificate come sport di non contatto, non solo per il fatto che la maggior parte delle gare si svolge in corsia, ma anche perché i contatti vengono sanzionati con la squalifica dalla competizione. Diversamente nelle corse ad ostacoli possiamo avere infortuni da contatto con gli ostacoli, così come quelli da contatto apparente (con il terreno per esempio dalla discesa dall’ostacolo), da sovrallenamento, da cattivo allenamento e infine quelli da non contatto.

Le tipologie di infortunio da non contatto, da sovrallenamento, da cattivo allenamento e in parte anche quelli da contatto apparente, fanno parte di una categoria di infortuni, dove è maggiormente possibile operare per ridurli. La conoscenza quindi del gesto tecnico, e soprattutto delle varietà di infortuni che possono colpire l’atleta in una particolare disciplina (epidemiologia), può aiutare a prevenirli.

Un altro dato da analizzare per la prevenzione è senza dubbio lo stato di salute dell’atleta. Infatti ci possono essere malformazioni, squilibri muscolari, fragilità di alcuni muscoli o tendini che non devono assolutamente essere sottovalutati, così come gli eventuali dolori (campanelli d’allarme) che l’atleta avverte durante l’allenamento. La valutazione dello stato di salute dell’atleta si compone di test da campo e da laboratorio essenziali per l’allenatore, in quanto deve andare a “costruire la performance” partendo dall’atleta che gli si pone davanti e allo stesso tempo monitorare eventuali miglioramenti o peggioramenti dovuto all’allenamento stesso.

La gara per un atleta rappresenta il lavoro di una vita, in pochi secondi si giocano anni di sacrifici e dedizione e, analizzandola dal punto di vista scientifico, possiamo paragonarla alla punta di un iceberg.

Tutto quello che sta al di sotto è assolutamente da scoprire e da far funzionare, se si vogliono raggiungere i massimi risultati umanamente possibili per l’atleta, analizzando i vari fattori che danno vita alla sua realizzazione.

Lo scopo del mio scritto è quello di integrare la prevenzione degli infortuni con l’allenamento stesso: vorrei sottolineare il fatto che l’obiettivo primario per un atleta rimane quello di ottenere il massimo della prestazione, così come quello della prevenzione. Non possiamo eliminare parti dell’allenamento o ridurre le gare solo per la salute dell’atleta, ma possiamo, tramite lo studio e la pratica, costruire un modello di allenamento adattabile ad ogni atleta.

 

CAP. 1: LE CORSE AD OSTACOLI NELL’ATLETICA LEGGERA

1.1 Modello prestativo delle gare ad ostacoli

Nell’atletica leggera le gare inferiori ai 100mt vengono considerate gare di potenza, mentre quelle che vanno dai 100mt ai 400mt, considerando anche le corse ad ostacoli (hs), si classificano come gare di velocità. Il loro impegno è di tipo anaerobico, in quanto la loro durata varia dai 10 ai 60 secondi.

Le corse ad ostacoli (100hs, 110hs e 400hs) si contraddistinguono da quelle di velocità pura in quanto la prestazione è il risultato di un compromesso fra diverse costanti come l’altezza dell’ostacolo, la distanza dell’ostacolo dalla partenza e dall’arrivo, la distanza fra gli ostacoli e il numero di questi, e fra variabili: dati antropometrici e predisposizione alla specialità da parte dell’atleta.

In tutte le gare ad ostacoli le barriere sono sempre 10, ma nelle gare veloci, a differenza di quelle del giro di pista, la ritmica (numero di passi fra gli ostacoli) è uguale per tutti gli atleti ed è di 3 passi in 9,14m per gli uomini e 8,50m per le donne. In base alle caratteristiche di ciascun atleta, sia uomini che donne, il primo ostacolo (distanza di 13,72m per gli uomini e 13,00m per le donne) può essere attaccato con 8 passi, come di consuetudine, o con 7. Questo porta l’atleta a modificare la posizione dei blocchi, portandoli più vicino alla linea di partenza, a modificare l’ampiezza del passo per questi primi metri. Per gli uomini gli ostacoli sono alti 1,067m, mentre per le donne 84cm.

I passi di gara risultano quindi 49-50 per le donne e 50-52 per gli uomini. Questo comporta un notevole limite per l’espressione della massima prestazione di ogni atleta: con la crescita fisica e prestativa l’atleta non deve mai perdere di vista questo caposaldo e l’allenamento deve vertere sul fatto che questi parametri sono inamovibili.

Passaggio dell’ostacolo ideale in una gara di 110hs

Passaggio dell’ostacolo ideale in una gara di 110hs. Tratto da officinaatletica.blogspot.it

 

 

Nei 400hs invece, il discorso è leggermente più approssimato. La ritmica è propria di ogni atleta e deve assicurargli la maggior efficienza di corsa possibile, in modo da riuscire a portare a termine la gara senza troppe difficoltà che ne compromettano la buona riuscita. Sia nella gara maschile che in quella femminile, le distanze degli ostacoli sono le stesse: dalla partenza al primo sono 45m, 35m fra le barriere e infine 40m dal decimo ostacolo all’arrivo. Gli ostacoli per le donne sono alti 76 cm contro i 91 degli uomini. Il numero dei passi è fondamentale per il mantenimento della ritmica, ma tuttavia deve essere analizzato soggettivamente per ogni atleta: la tecnica di passaggio dell’ostacolo si differenzia da quella delle gare veloci in quanto può essere meno curata nei particolari di tronco e braccia.

Passaggio dell’ostacolo ideale in una gara di 400hs

Passaggio dell’ostacolo ideale in una gara di 400hs Tratto da officinaatletica.blogspot.it.

 

 

Questo non vuol dire che non si devono fare sedute di tecnica ma, data l’altezza minore delle barriere, il suo passaggio è già più facilitato. È invece da sottolineare l’importanza del consolidamento di una corretta ritmica di gara, in modo da non far perdere troppo nel superamento degli ostacoli rispetto alla fisiologica diminuzione della prestazione in seguito all’insorgere della fatica. Ci saranno atleti con differenziali notevoli fra la distanza piana e quella con ostacoli riconducibili al fatto che la ritmica non sia ancora ben consolidata o addirittura errata; per l’eventuale progresso della prestazione è utile fare test di corsa ampia (per esempio sui 100m) in modo da trovare la ritmica consona all’atleta che si ha di fronte. Allo stesso modo ci sono ostacolisti che non riescono ad esprimersi al massimo nel giro senza barriere riducendo il differenziale anche a meno di un secondo, ma se si trovano a correre frazioni di staffetta 4x400m, conseguono parziali nettamente più bassi.

1.2 Caratteristiche dell’ostacolista

Le caratteristiche antropometriche dell’ostacolista, rispetto al velocista, incidono maggiormente in campo maschile: infatti un atleta dalle lunghe leve è avvantaggiato nella gara veloce, in cui il bacino deve superare un’altezza considerevole (1.067m). In campo femminile non ci sono particolari esigenze di altezza siccome sia nei 400hs che nei 100hs sempre più atlete normotipo vincono medaglie o ottengono ottime prestazioni a livello mondiale.

Archiviata la prima parte di “genetica” passiamo alle qualità fisiche che incidono maggiormente sulla prestazione di alto livello: ovviamente tutti possono praticare atletica leggera e quindi dedicarsi alle competizioni con ostacoli, ma ci saranno alcuni soggetti che, grazie all’allenamento e alle proprie caratteristiche fisiche, primeggeranno su altri. Una delle capacità fondamentali è sicuramente la coordinazione: una buona coordinazione generale favorisce l’apprendimento delle tecnica di passaggio degli ostacoli e lo sviluppo futuro della stessa. Oltre alla coordinazione, la mobilità articolare è sicuramente un fattore da non tralasciare: si “costruisce” già in giovane età ed è indispensabile per qualsiasi disciplina dell’atletica leggera. Un buon ostacolista deve essere innanzitutto un buon velocista: deve avere buona velocità di base, buona capacità di reazione e rapidità nell’esecuzione dei gesti. Per i 400isti ad ostacoli sono indispensabili sia l’orientamento spazio-temporale (la ritmica, oltre a variare da soggetto a soggetto, può cambiare anche in base alle condizioni climatiche o ad eventi casuali come la caduta di un vicino di corsia, ecc.) e la modulazione dinamica della propria condizione fisica, frequenza ed ampiezza passo in funzione della propria ritmica. Importanti, inoltre, sono le componenti piscologiche anche in funzione di un futuro recupero da un infortunio o da un evento accidentale durante la gara.

 

1.3 Programmazione di una stagione agonistica dell’ostacolista

Proviamo ad analizzare un’intera stagione agonistica per avere un quadro generale di cosa affronta l’atleta annualmente. In atletica leggera i periodi agonistici sono due: quello invernale che dura circa due mesi (gennaio e febbraio, tranne per le gare campestri/strada che iniziano a dicembre e potrebbero protrarsi fino a marzo) e quello estivo che vede gli appuntamenti clou in luglio-agosto con meeting anche a settembre. Nonostante ci siano campionati del mondo ed europei anche indoor, la parte più importante della stagione rimane quella outdoor. Da fine aprile a circa metà agosto le occasioni per gareggiare non mancano di certo: l’allenatore, collaborando con l’atleta, si preoccupa di stendere un programma delle competizioni personalizzato, incentrato sugli avvenimenti importanti (campionati italiani e internazionali). L’articolazione dei periodi annuali degli allenamenti viene chiamata periodizzazione dell’allenamento ed è organizzata in cicli. Questo avviene perché per ogni atleta è difficile mantenere il miglior stato di forma psico-fisico per più di qualche settimana, dunque, per questa ragione i cambiamenti della forma sportiva (costruzione, mantenimento o perdita di essa) sono soggetti a variazioni temporali cicliche. Un ciclo di allenamento viene dunque suddiviso in:

  • Periodo di preparazione: questo periodo iniziale si articola in due fasi, il cui obiettivo comune è quello di preparare l’atleta alla stagione che lo aspetta. Nella prima fase spicca la preparazione generale, dove le esercitazioni sono volte a “costruire” organicamente l’atleta, formando anche i presupposti psichici e motivazionali dello stesso. La seconda fase viene chiamata “precompetitiva”, durante la quale aumentano le esercitazioni a carattere specifico per consentire all’atleta di orientarsi verso l’imminente periodo competitivo. Negli sportivi di alto livello invece il volume e l’intensità del carico sono pressoché costanti per entrambe le fasi, in quanto il loro livello iniziale di preparazione è già di per sé molto alto.

Solitamente il periodo di preparazione coincide con quello invernale, l’atleta dunque affronta volumi di lavoro elevati (che si differenziano sia per il centista e il quattrocentista) diminuendo l’intensità di percorrenza delle prove stesse rispetto ai propri limiti personali. Inoltre si incrementano gli allenamenti e le sedute di pesi: in una programmazione corretta l’atleta anno dopo anno dovrebbe affrontare carichi crescenti, in modo da far crescere con essi anche la performance stessa. In età giovanile, fino ai 18 anni, è essenziale la gradualità della programmazione stessa; capita che ci siano ragazzi/e biologicamente avanti rispetto ai coetanei: questo non deve far cadere l’allenatore nell’errore di somministrare loro carichi inappropriati. Durante questo periodo l’atleta non abbandona gli ostacoli e affronta sedute di tecnica per perfezionarsi. Nella fase precompetitiva invece l’ostacolista veloce può iniziare a introdurre sedute di ritmica di ostacoli proiettandosi sui 60hs indoor.

  • Periodo agonistico: questo è il periodo fondamentale per l’atleta nel quale può raggiungere gli obiettivi prestabiliti. I carichi che il soggetto può sostenere dipendono dalle proprie capacità individuali e attraverso un’adeguata scelta delle competizioni permettono all’atleta di arrivare alla gara clou preparato sia fisicamente che psicologicamente. In questo periodo è importante l’approccio mentale in una disciplina come gli ostacoli, dove c’è poco spazio per l’improvvisazione. I lavori di corsa diventano più qualitativi che quantitativi e di grande importanza sono gli allenamenti di ritmica di corsa, cercando di avvicinarsi sempre di più al clima della competizione (o competizioni) che l’atleta dovrà affrontare: eventuali doppi o tripli turni per i campionati internazionali o nazionali. Le sedute di forza con i pesi sono ridotte e tramutate in seduta di forza speciale.[su_spacer size="10"]
  • Periodo di transizione: questo periodo è caratterizzato dalla fisiologica perdita dello stato di forma che consegue il periodo di gara, dunque volume e intensità del carico diminuiscono per permettere all’atleta di recuperare fisicamente e psicologicamente. Questa fase è considerata comunque di recupero attivo, in modo da evitare che i parametri della prestazione diminuiscano eccessivamente. Se pensiamo al periodo post-indoor possiamo classificarlo come periodo di transizione che può durare dalle due alle tre settimane, in base all’intensità della stagione al coperto, per introdurre l’atleta al successivo periodo di preparazione per la stagione outdoor.

L’allenatore può decidere di compiere per l’atleta una periodizzazione semplice, escludendo ad esempio le gare della stagione indoor, o di disporre una doppia periodizzazione. In questo caso il periodo di preparazione iniziato in autunno finirà a gennaio in occasione dell’esordio indoor e il periodo agonistico si concluderà nel mese successivo. I mesi da marzo ad aprile/maggio saranno utilizzati sia come periodo di transizione che come ri-preparazione per la stagione outdoor.

 

CAP. 2: ANALISI BIOMECCANICA DELLA CORSA E DEL PASSAGGIO DELL’OSTACOLO

2.1 Biomeccanica di corsa

Analizzare la biomeccanica di corsa è fondamentale per capire come e perché accadono determinati infortuni. Pensiamo alla corsa come ad un ciclo produttivo di una fabbrica: conoscendo ogni parte ed ogni funzione ad essa delegata, ricostruendone il meccanismo, potremmo intervenire minuziosamente e riconoscerne gli eventuali problemi prima che avvengano dei guasti.

La biomeccanica di corsa è diversa dalla biomeccanica del cammino. Oltretutto si differenzia in base alle velocità del soggetto: aumentando la velocità diminuisce il tempo d’appoggio del piede e superando i 7m/s (25,2 km/h) non aumenta più l’ampiezza del passo ma la frequenza degli appoggi.

Ovviamente vari fattori determinano la meccanica di corsa: l’età, il sesso, le differenti tipologie antropometriche, il tipo di calzatura, il tipo di terreno e le diverse abilità dell’individuo.

Un ciclo di corsa è compreso fra due appoggi dello stesso piede (destro-sinistro-destro per esempio): si differenzia dal ciclo di deambulazione perché non vi troviamo un doppio appoggio dei piedi e abbiamo una fase di volo. L’appoggio del piede (destro in questo esempio) si compone di tre fasi: fase di ammortizzazione che solitamente avviene con la parte posteriore del piede, a basse velocità viene appoggiato anche il tallone mentre man mano che la velocità aumenta l’appoggio è sempre più verso il mesopiede. In questa fase i muscoli che si contraggono sono il tricipite surale e il tibiale anteriore, normalmente antagonisti, ma che lavorando insieme in questa fase danno stabilità al piede. Contemporaneamente il vasto laterale, quello mediale e il retto femorale sono attivi per contrastare le forze d’impatto al suolo. La seconda fase è quella di appoggio vero e proprio, mentre l’ultima è la fase di spinta: qui il tricipite surale si contrae concentricamente per provvedere alla spinta in avanti del corpo.

 

Al momento dello stacco del piede da terra, il ginocchio viene portato all’altezza delle anche tramite la contrazione concentrica del quadricipite femorale: se il ginocchio supera i 90° di flessione dell’anca, allora interviene il muscolo ileo-psoas. In fase di discesa intervengono i flessori di gamba, guidati dal bicipite femorale, contraendosi concentricamente, diminuiscono gli angoli di flessione e preparano l’arto alla discesa; quando il piede è a terra il ginocchio non è mai completamente esteso. A questo punto il piede destro si prepara all’impatto a terra e il ciclo ricomincia. Ovviamente l’arto sinistro compie lo stesso ciclo ma precisamente alla fine della fase di spinta del piede destro, incomincia la contrazione concentrica del bicipite femorale per la discesa della gamba.

Modello ideale della corsa

Corsa ad ostacoli. Modello ideale della corsa. Tratto da "Therapeutic exercise for musculoskeletal injuries"

 

La teoria vorrebbe che il tronco fosse completamente perpendicolare al terreno ma numerosi studi hanno stabilito che un’inclinazione dai 4 ai 7°, fino agli 11° negli sprinter, è compatibile con una buona corsa. Gli arti superiori si muovono alternati agli arti inferiori: l’angolo delle spalle rispecchia quello dell’anca, così come quello del gomito è conciliabile con l’angolo del ginocchio.

 

2.2 Biomeccanica di passaggio dell’ostacolo

La corsa dell’ostacolista si scosta leggermente da quella dello sprinter puro, dal momento che l’atleta ha un numero preciso di passi da fare all’interno della propria gara e allo stesso tempo superare 10 barriere per giungere all’arrivo. La tecnica di passaggio dell’ostacolo è caratterizzata dall’attacco di “prima gamba” e al passaggio laterale di “seconda gamba”: come abbiamo già ricordato l’ostacolista veloce attaccherà sempre con la stessa gamba, destra o sinistra che sia, le barriere, mentre per il quattrocentista c’è la possibilità di alternarle.

La gamba di attacco supera l’ostacolo frontalmente: quando l’anca è flessa (punto 2) il ginocchio viene portato oltre i 90° di flessione di anca (punto 3) e qui, con la contrazione eccentrica dei flessori femorali, la gamba viene distesa sopra la barriera (punto 5 e 6) e preparata alla discesa e al conseguente impatto al suolo.

Fase attacco dell'ostacolo

Corse ad ostacoli. Fase di attacco dell’ostacolo. Tratto da "Il manuale dell’istruttore di atletica leggera"

 

 

La seconda gamba invece è flessa e rotata lateralmente per superare la barriera. Alla discesa dell’ostacolo troviamo la prima gamba a ginocchio esteso (l’unico momento in cui il ginocchio dovrebbe essere completamente esteso, punto 10) con il piede in flessione plantare (in gergo tecnico: a martello) e il bacino sopra l’appoggio: questo per sfuggire avanti e continuare la normale azione di corsa mentre il ginocchio della seconda gamba (o gamba di spinta) è tenuto alto frontalmente (punto 11).

Fase di valicamento e discesa ostacolo

Corse ad ostacoli. Fase di valicamento e discesa dall’ostacolo. Tratto da Il manuale dell’istruttore di atletica leggera

 

 

In fase di attacco il busto è leggermente flesso in avanti per “chiudersi” sopra l’ostacolo e gli arti superiori, come nella corsa, compensano i segmenti inferiori.

Nei 400hs non c’è un’esasperazione particolare per la perfezione della tecnica di passaggio: infatti sia uomini che donne eseguono semplicemente un “passo più lungo” al momento dell’attacco; il loro obiettivo è quello di perdere il meno possibile a livello di decimi, talvolta centesimi. L’altezza delle barriere consente quindi di scivolare via senza modificare eccessivamente il passo di corsa, per questo anche la flessione del busto non è poi così marcata. Di determinante attenzione invece sono i particolari per quanto riguarda gli ostacolisti veloci: il baricentro nei 110hs deve superare ben 10 volte un’altezza di 106,7 centimetri. Questo comporta una rapidità di esecuzione dei gesti di valicamento delle barriere: il busto è più flesso per facilitare la discesa della prima gamba e il corrispondente avanzamento delle anche, per riprendere l’azione di corsa nei 9,14 metri successivi.

Vedi anche:

Ostacoli: salto o corsa? 

Ostacoli: tecnica di passaggio

 

CAP. 3: INFORTUNI E CORSA AD OSTACOLI

3.1 Classificazione degli infortuni

Cosa intendiamo col termine “infortunio”?

Cosa rappresenta un infortunio per un atleta, sia di alto che basso livello?

Un infortunio indica l’impossibilità di concludere la competizione o l’allenamento, al massimo delle potenzialità psico-fisiche proprie dell’atleta in quella circostanza. Guardando qualsiasi disciplina sportiva, possiamo accorgerci che in determinate situazione è impossibile prevenire questi traumi, basti pensare ad un contatto fra giocatori di rugby o calcio. D’altra parte è ugualmente possibile prevenirne altri, legati all’inadeguatezza dell’abbigliamento sportivo, del terreno o delle strutture dove allenarsi/competere, ad una metodica di allenamento insufficiente o scorretta o ad un esecuzione imperfetta del gesto atletico che a lungo andare danneggia le configurazioni umane.

Le cosiddette “lesioni da sport” sono divisibili i in due categorie:

  • forme traumatiche acute: avvengono per un trauma unico di una certa violenza (lesioni muscolari, lussazioni o sublussazioni articolari, fratture ossee e lesioni capsulo-legamentose);
  • da sovraccarico funzionale: indicano patologie croniche che, a lungo andare, logorano i tessuti provocando microtraumi propri di un gesto tecnico sportivo; In questo gruppo troviamo tendinopatie e fratture da stress, sempre più un problema per gli atleti professionisti.

Per quanto riguarda l’atletica leggera, ed in particolare le discipline con gli ostacoli, le lesioni traumatiche acute, ovvero dovute ad un trauma unico di una certe violenza, sono molto rare. Questo perché trattandosi di gare da svolgere in corsia, il contatto con l’avversario oltre ad essere da squalifica, è anche quasi impossibile. Le lesioni agli arti superiori, sono oltretutto rare, e la maggior parte delle volte derivanti da un trauma (caduta dall’ostacolo).

Per capire meglio quali sono le lesioni più frequenti, perché e come avvengono, ho stilato un questionario e l’ho sottoposto ad atleti di livello nazionale/internazionale di entrambi i sessi ed entrambe le discipline.

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Corse ad ostacoli. Questionario prevenzione HS

 

 

Ho potuto così studiare gli infortuni di 37 atleti: 17 atlete dei 400hs femminili, 7 atlete dei 100hs femminili, 5 atleti dei 400hs maschili e 8 dei 110hs maschili.

Una distinzione primaria va fatta per quelli che sono gli infortuni in cui l’atleta si è imbattuto durante le sedute di allenamento e quelli riscontrati nelle competizioni (sia durante il riscaldamento che durante la gara stessa).

 

3.2 Principali cause di infortunio durante le sedute di allenamento

Infortuni durante gli allenamenti

Corse ad ostacoli. Infortuni durante gli allenamenti

 

Come possiamo notare le lesioni muscolari agli arti inferiori rappresentano la maggior parte degli infortuni sofferti durante le sedute di allenamento di tutte e quattro le discipline analizzate. Questo non sorprende in quanto le lesioni muscolari sono la causa più frequente di infortunio in tutte le discipline sportive: nell’atletica leggera sono più frequenti le lesioni da trauma indiretto, che avvengo per un’eccessiva contrazione in fase di rilasciamento del muscolo o in un allungamento eccessivo in fase di rilasciamento.Per questo tipo di lesioni, intervengono molti fattori predisponenti: alcuni facilmente riscontrabili come le condizioni ambientali (freddo, umidità, terreno scivoloso) e fattori fisiologici (squilibri fra i muscoli agonisti e antagonisti, poca mobilità articolare), altri più difficili da determinare come l’insufficienza o inadeguatezza del riscaldamento e una scorrettezza nel determinare l’allenamento. Da non sottovalutare anche i fattori psicologici come lo stress da competizione o la paura di incorrere negli infortuni stessi in determinate condizioni, responsabili degli infortuni in cui l’atleta si imbatte durante la gara. Non esiste un vero e proprio “schema da seguire” per quanto riguarda queste lesioni: possono capitare all’improvviso, l’atleta può non lamentare sintomi di indolenzimento o affaticamento ai muscoli, oppure possono essere la conseguenza di un periodo di logorio muscolare che per ragioni legate al momento della stagione è stato sottovalutato.

Lesioni muscolari arti inferiori

Corse ad ostacoli. Lesioni muscolari arti inferiori

 

Le lesioni muscolari più frequenti riguardano i muscoli bicipiti femorali che intervengono sia sull’articolazione di ginocchio sia su quella di anca. La doppia funzione di flessori di gamba ed estensori di coscia crea problemi nella fase di discesa del ginocchio della corsa, quando devono passare da una contrazione concentrica, per portare il ginocchio all’altezza delle anche (o superiore se pensiamo all’azione di prima gamba che attacca l’ostacolo) ad una fase eccentrica che riporta il piede a terra. Se questo distretto muscolare non è sufficientemente riscaldato, “forte” ed abituato a questa azione rischia di lacerarsi in maniera più o meno grave.

Patologie tendinee

Corse ad ostacoli. Patologie tendinee

 

Le tendinopatie sono ormai una patologia molto frequente, a tutti i livelli di pratica sportiva. Le strutture tendinee sono adepte a collegare i muscoli alle ossa, muovendole con un’azione di leva. Sono formati da tessuto connettivo poco vascolarizzato, quindi la loro buona elasticità è offuscata da una minor resistenza alle sollecitazioni ripetute nel tempo. Le tendinopatie sono divise in due gruppi: forme acute (tendiniti) caratterizzate da un’infiammazione alla giuntura osto-tendinea, e forme croniche (tendinosi) caratterizzate da una degenerazione strutturale tendinea, che può portare alla rottura completa. Come possiamo notare i casi più frequenti riguardano il tendine d’Achille, il più robusto del corpo umano che in uno sport come l’atletica leggera, è fondamentale per qualsiasi movimento, vedendo la confluenza di muscoli come il gastrocnemio (fascio laterale e mediale) e il soleo. La sindrome retto-adduttoria, comunemente detta “pubalgia”, è oltretutto riscontrabile soprattutto negli individui maschi, e rappresenta un’infiammazione che interessa l’inserzione tendinea dei muscoli addominali e/o quella prossimale dei muscoli adduttori del pube: nei soggetti poco mobili è presente un forte squilibrio fra queste due fasce muscolari che, a lungo andare, impedisce anche la corsa leggera se non curata. Una tendinopatia può insorgere in seguito a esercitazioni di tecnica di corsa o di ostacoli dove la velocità e l’irruenza di appoggio del piede, determinante per le prestazioni atletiche, possono stressare ripetutamente la struttura. Inizialmente il dolore arriva post allenamento ed è lieve, progressivamente infastidisce l’atleta anche durante la seduta di allenamento e se non curato o monitorato a sufficienza può impedire di svolgere non solo allenamenti blandi, ma addirittura intervenire nei gesti della vita quotidiana (salire le scale). La rottura completa o incompleta può avvenire per un trauma unico o legata all’usura eccessiva. L’infiammazione del tendine del bicipite femorale può rientrare nella sindrome dei muscoli ischio-crurali, essendo che, insieme al semimembranoso e semitendinoso, fa parte dei muscoli biarticolari che originano dalla tuberosità ischiatica e quindi soggetti a più sofferenza.

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3.3 Infortuni durante l’arco della stagione 

La preparazione invernale è il periodo più lungo della stagione e soggetto a condizioni climatiche che variano a seconda del luogo dove ci si allena e dell’orario di allenamento; aumentano anche le sedute di allenamento per “costruire” la performance perciò accrescono le occasioni di infortunio. Di rilievo è anche la percentuale di infortuni subiti al rientro dalle vacanze, probabilmente troppo intensi per cercare di entrare subito in forma in vista delle ultime fatiche di settembre/ottobre. Gli infortuni del periodo agonistico potrebbero essere dovuti ad un errata pianificazione delle competizioni che esaurisce l’atleta anche dal punto di vista psicologico e quindi la possibilità di infortunio aumenta.

Correlazione tra infortuni e periodo

Corse ad ostacoli. Correlazione tra infortuni e periodo

 

 

3.4 Infortuni suddivisi in base alla seduta di allenamento

Gli infortuni riscontrati durante le sedute di corsa e di tecnica/ritmica ostacoli rappresentano la maggior parte dei casi di infortuni totali: questo dato è scontato, perché un ostacolista compie molti più allenamenti di corsa e di ostacoli che lavori di forza. Ma questi ultimi rappresentano ben il 13% quindi vuol dire che la biomeccanica di esecuzioni di alcuni gesti fondamentali come lo squat, non è conosciuta e applicata correttamente. Fondamentale diventa quindi l’analisi della postura dell’atleta per costruire un programma di pesi adatto come esercizi e carichi all’individuo che abbiamo davanti.

Correlazione tra infortuni e sedute di allenamento

Corse ad ostacoli. Correlazione tra infortuni e sedute di allenamento

 

 

3.5 Infortuni legati alle discipline

3.5.1  400hs donne

Analizzando in particolare gli infortuni più frequenti nei 400hs femminili, notiamo una percentuale consistente di traumi e contusioni ai piedi e di sofferenze della colonna vertebrale. Le cause principali sono da imputare al fatto che spesso il lavoro di tecnica di ostacoli viene messa in secondo piano, dunque la continua ripetizioni di esercizi tecnicamente non corretti comporta l’usura dei segmenti più esposti. Se l’ostacolo non è “preparato bene” l’atleta rischia di arrivare troppo sotto la barriera, attaccandola quindi in fase ascendente, portando ad una discesa pesante che colpisce prima di tutto il piede e l’abbassamento eccessivo del baricentro opera una tensione eccedente in zona lombare.

Infortuni 400hs

Corse ad ostacoli. Infortuni 400 hs donne

 

3.5.2  400hs uomini

Le patologie tendinee che più interessano gli uomini sono quelle a carico del tendine d’Achille e dei tendini della zona pubica (pubalgia). Le origini di queste disfunzioni possono essere imputate alla scarsa mobilità articolare e alla asimmetrie muscolari che più caratterizzano il sesso maschile.

Infortuni 400hs Uomini

Corse ad ostacoli. Infortuni 400 hs uomini

 

3.5.3  100hs donne

Negli ostacoli veloci è più facile il rischio di cadere, per questo ci sono contusioni agli arti superiori dovuti a queste eventualità.

Infortuni 100hs

Corse ad ostacoli. Infortuni 100 hs donne

 

3.5.4  110hs uomini

La velocità e la forza degli ostacolisti veloci incide sui tendini dei muscoli principali dell’azione: tendini d’Achille, tendini dei bicipiti femorali e il solito problema di pubalgia. Molto spesso ad aggravare questa situazione si aggiungono l’inadeguatezza delle calzature o la durezza del terreno dove si compiono questi esercizi. 

Infortuni 110hs

Corse ad ostacoli. Infortuni 110hs

 

 

3.6 Presenza di documentazione medica

Come si evince da questo grafico, la maggior parte degli infortuni avvenuti durante gli allenamenti non presenta un referto medico. Questo a volte porta a sottovalutare l’entità del sinistro in cui ci si è imbattuti e quindi a riprendere l’attività precocemente e a gravare sulla struttura compromessa.

Inforuni, presenza referto medico

Corse ad ostacoli. Inforuni, presenza referto medico

 

 

3.7 Principali cause di infortuni durante le competizioni

Durante le competizioni lo stress psicologico aumenta rispetto agli allenamenti, ma contemporaneamente si alza il livello di attenzione dedicato al riscaldamento e alla gara stessa. Gli infortuni che ne derivano possono essere frutto delle condizioni ambientali sfavorevoli e di conseguenza la necessità di andare al massimo nonostante l’incompatibilità dei limiti, sforza eccessivamente la “macchina” atleta. La possibile caduta durante la gara non è per forza sinonimo di infortunio: infatti si può benissimo “cocciare” contro una barriera, soprattutto nelle gare veloci, e fermarsi perché si perde il ritmo e in 6/7 metri è difficile riprenderlo. Le lesioni muscolari rappresentano ancora una volta la maggioranza degli infortuni e soprattutto quelli di maggior gravità. Aumentano i traumi al ginocchio e le contusioni al piede, frutto della ricerca stressante della migliore performance possibile: il piede è sollecitato all’impatto in discesa mentre il ginocchio, specialmente della seconda gamba, che sfiora o prende in pieno l’ostacolo, a volte riporta danni più seri di un semplice livido.

Infortuni durante le competizioni

Corse ad ostacoli. Infortuni durante le competizioni

 

 

3.8 Sindrome da overtraining

Da non dimenticare, infine, per creare un’idea più chiara e completa possibile di cosa rappresenti un infortunio per un’atleta, di qualsiasi livello, è la sindrome da “sovrallenamento”.

Qui gli atleti più colpiti sono quelli di alto livello, complice l’aumento delle sessioni di allenamento, il bisogno di mantenere una certa continuità di risultati su alti livelli, lo stress psico-fisico continuo, ecc. Le cause sono molteplici e se prese singolarmente non costituiscono questo particolare caso, dove le prestazioni calano sempre più, insieme alle motivazioni e alla capacità da parte dell’individuo di sostenere gli allenamenti. La diagnosi precoce è fondamentale perché nei casi più gravi l’atleta può rimanere fuori dalle competizioni (con tutto ciò che ne consegue: perdite economiche, perdite di grandi eventi nazionali ed internazionali) parecchi mesi!

CAP. 4: PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI NELLE CORSE AD OSTACOLI

4.1 Valutazione dello stato di salute dell’atleta

Nel capitolo precedente abbiamo compreso quali sono le maggiori cause di infortunio nelle discipline di ostacoli dell’atletica leggera, ma come è possibili evitarli?

Se dobbiamo intervenire preventivamente non possiamo certo pensare di eliminare definitivamente queste difficoltà per l’atleta, ma ridurre il più possibile il loro presentarsi, mantenendo alti i livelli prestativi degli atleti stessi.

La prima analisi che deve essere fatta è sull’atleta stesso: età anagrafica e biologica (in giovane età possiamo trovarci davanti ragazzi di 15 anni completamente diversi), sesso, proporzioni corporee, esperienze motorie passate (la provenienza da un altro sport ad esempio) e anamnesi. Lo stato di salute dell’atleta è monitorato attualmente tramite la visita medica agonistica obbligatoria per potersi iscrivere ad una società e quindi gareggiare. In caso di esito positivo il soggetto è considerato idoneo alla pratica dell’attività in questione. La visita medica consiste nel controllo delle urine, della vista, esame spirometrico ed elettrocardiogramma a riposo e sotto sforzo, e un controllo finale dal medico dello sport. Questo permette di trovare problemi come disfunzioni cardiache o polmonari che non solo rischierebbero di compromettere la performance, ma addirittura portare a complicanze rischiose per la vita stessa.

Una volta superato questo step, possiamo spostarci sul campo ed eseguire test sia oggettivi che soggettivi per valutare lo stato di partenza delle qualità/abilità dell’atleta che abbiamo davanti. La tecnica di corsa e di passaggio dell’ostacolo sono dei parametri vincolati innanzi tutto all’occhio che li analizza: un allenatore esperto sicuramente parte avvantaggiato in questa analisi perché riesce a trovare il particolare che porta l’atleta a compiere quel movimento in quel determinato modo. Per esempio l’atleta potrebbe perdere eccessivamente “i piedi dietro”, cioè non alzare le ginocchia perché ha un’inclinazione di busto troppo accentuata.

I test oggettivi sono molteplici e hanno lo scopo secondario di monitorare quella che è la situazione dell’atleta nel corso del tempo; risultano quindi efficaci per considerare il punto di partenza, ma anche per valutare se la programmazione degli allenamenti è stata adeguata o ha portato solo ad aggravare la situazione dell’allievo.

Molti test possono essere fatti in laboratorio ma molto spesso sono costosi; per far sì che la valutazione sia accessibile a tutti, di seguito proporrò dei test da campo, fattibili solamente con una buona fotocamera, oltre che con l’occhio del tecnico.

Il primo test da effettuare è quello sulla postura: il soggetto, scalzo, sta semplicemente in piedi, sguardo rivolto di fronte con gli arti superiori lungo i fianchi. Una visione di fronte, di lato e davanti può mostrarci innanzi tutto quale sia l’atteggiamento considerato naturale dal nostro atleta e successivamente quali problemi posturali potrebbe avere: iperlordosi lombare, dissimmetria arti inferiori, ginocchia vare o valghe o il cosiddetto “piede piatto”. Nel caso siano particolarmente accentuati, è bene rivolgersi direttamente ad uno specialista.

Tutti i test di mobilità articolare invece necessitano solo della conoscenza dei gradi di movimenti attorno ad una specifica articolazione e dei suoi movimenti consentiti.

In seguito analizzeremo un test chiamato “Y Balance Test”, letteralmente test dell’equilibrio: in appoggio monopodalico il soggetto deve raggiungere con il piede il punto più lontano in avanti verso destra, verso sinistra e indietro (da qui l’assegnazione del termine “Y”). La gamba d’appoggio si può flettere mentre l’altra deve rimanere estesa: il soggetto non deve mai perdere l’equilibrio appoggiando l’arto o le mani a terra.

Esempio di esecuzione del Y Balance test

Corse ad ostacoli. Esempio di esecuzione del Y Balance test. Tratto dal materiale del convengo “ La prevenzione degli infortuni nell’atletica leggera” M.Tripodi

 

Il risultato sarà numerico in centimetri e confrontando l’appoggio destro con quello sinistro (differenza ­più o meno 4 cm) si possono trovare eventuali asimmetrie d’appoggio, che se non prontamente riequilibrate, possono portare ad una serie di infortuni che rallentano la crescita sportiva dell’atleta. Senza acquistare il sistema “YBT”, il test si può effettuare con un nastro graduato fermo a terra nelle tre direzioni e un metodo di analisi sempre costante.

 

Esempio di esecuzione del Y Balance test da campo 1 Esempio di esecuzione del Y Balance test 3 Esempio di esecuzione del Y Balance test 2
Corse ad ostacoli. Esecuzione del YBT senza riferimenti per migliorare la stabilità di caviglia integrabile in allenamento

È un ottimo metodo per valutare l’equilibrio funzionale e la stabilità della caviglia ripetibile durante il riscaldamento (senza necessariamente misurare i l’ampiezza dei movimenti) e quindi integrarlo all’allenamento.

Un altro fattore di rischio individuato per incappare in un infortunio sono quindi le asimmetrie muscolari: una tecnica per indagarle è il metodo FMS (Functional Movement Screen). Questa pratica, valutando la qualità dei movimenti, permette di riconoscere anche disfunzioni globali: il test consiste in 7 esercizi valutati con un punteggio da 0 a 3 per ogni esercizio, ottenendo un punteggio finale da 0 a 21. I soggetti a rischio sono quelli che ottengono un punteggio inferiore a 14: ovviamente questa semplice valutazione (soggettiva perché dipende anche dall’operatore) non può sostituirsi però ad una visita specialistica di un ortopedico.

Gli esercizi del metodo FMS sono:

1. Deep squat

Consiste nell’effettuare uno squat, cioè un piegamento degli arti inferiori tenendo sopra la testa un bastone con gli arti superiori tesi e l’impugnatura a larghezza spalle.

Corse ad ostacoli. Deep squat FMS Test

Corse ad ostacoli. Deep squat FMS Test

2. Hurdle step

Consiste nel superare un ostacolo (altezza in centimetri pari alla lunghezza della tibia) con un arto, stando in equilibrio sull’altro; una volta che il piede è completamente al di là dell’ostacolo, senza toccare il suolo, fa ritorno. Eseguire da entrambi i lati.

Corse ad ostacoli. Hurdle step FMS Test

Corse ad ostacoli. Hurdle step FMS Test

3. Inline lunge

I piedi sono paralleli su una linea a distanza in centimetri pari alla lunghezza della tibia. Il soggetto fa un piegamento portando il ginocchio dell’altro più indietro, vicino al suolo e all’altro piede, tenendo un bastone appoggiato al coccige e alla nuca sempre perpendicolare al terreno: il soggetto non deve mai perdere l’equilibrio. Eseguire da entrambi i lati.

Corse ad ostacoli. Inline lunge FMS Test

Corse ad ostacoli. Inline lunge FMS Test

4. Shoulder mobility

Questo esercizio permette di valutare la mobilità di entrambe le spalle, cercando di avvicinare le mani fra loro dietro la schiena.

Corse ad ostacoli. Shoulder mobility FMS Test

Corse ad ostacoli. Shoulder mobility FMS Test

5. Active straight-leg raise

Il soggetto è supino con un arto inferiore disteso e l’altro teso deve avvicinarsi il più possibilmente alla perpendicolare.

Corse ad ostacoli. Active straight-leg raise FMS Test

Corse ad ostacoli. Active straight-leg raise FMS Test

6. Trunk stability pushup

Il soggetto prono porta le mani all’altezza delle orecchie ed estende gli arti superiori cercando di mantenere la posizione per almeno 3 secondi.

Corse ad ostacoli. Trunk stability pushup FMS Test

Corse ad ostacoli. Trunk stability pushup FMS Test

7. Rotary stability

Corse ad ostacoli. Rotary stability FMS Test

Corse ad ostacoli. Rotary stability FMS Test

In questo esercizio il soggetto, in appoggio su un ginocchio e sulla mano dello stesso lato, deve portare più volte il ginocchio ed il gomito liberi a contatto senza perdere l’equilibrio.

FMS Test. Immagini tratte dal materiale del convengo “La prevenzione degli infortuni nell’atletica leggera” M.Tripodi

4.2 Tecniche preventive

4.2.1 Core stabiliy

Il termine “core stability” deriva dall’inglese e la sua traduzione è “stabilità del cuore, centro”, cioè indica quella parte di muscoli che si occupa della stabilità dell’intero organismo, cioè il trasverso dell’addome, gli obliqui, multifido, il retto dell’addome, gli erettori spinali, il quadrato dei lombi, il pavimento pelvico, il diaframma e nel caso di un ostacolista, possiamo aggiungere grande il gluteo, l’ileo-psoas, il tensore della fascia lata, gli ischio crurali e il quadricipite femorale. Questi muscoli sono deputati, oltre che al movimento nella corsa, alla stabilità della stessa; pensiamo ad una ripetuta, quante volte bisogna correggere il proprio assetto per proseguire? Se ci troviamo di fronte ad erettori della colonna e addominali deboli, il busto continuerà ad oscillare aumentando l’attrito e di conseguenza il tempo finale: dunque a parità di velocità si spreca molta più energia. In un 400hs, dove ovviamente entra in gioco anche il fattore fatica, risulta determinante mantenere un atteggiamento il meno dispendioso possibile ed efficace al massimo.

Possiamo immaginare la core stability come una sorta di propriocezione per la zona compresa dal diaframma fino alle inserzioni dei muscoli dell’articolazione dell’anca; dunque dobbiamo istruirli a mantenere un atteggiamento corretto durante tutte le attività. Questi esercizi consistono nella continua contrazione della zona addominale mantenendo il bacino in posizione neutra, evitando sovraccarichi alla colonna.

Plank sui gomiti

Corse ad ostacoli. Plank in appoggio sui gomiti

 

Come in ogni situazione, l’allenamento di core deve tenere conto dell’atleta che abbiamo davanti e la sua introduzione nelle sedute di allenamento deve essere graduale e orientata al gesto dell’atleta, in questo caso ostacolista.

Core training, la nostra guida (con video)

4.2.2 Stretching

La pratica dello stretching nasce in America sulla scia della ginnastica dolce e il termine deriva dalla traduzione inglese “to stretch” ovvero “allungare”. L’allungamento è quello dei muscoli cioè sia delle fibre muscolari che lo compongono, sia delle strutture contrattili (tendini, fasce, ecc.). Lo stretching può essere sostanzialmente di due tipi: attivo e passivo. Quello passivo consiste nel raggiungere una posizione di allungamento di un particolare muscolo, senza sentire dolore ma solo fastidio, e mantenerla per circa 30”.

Corse ad ostacoli. Stretching statico in posizione da ostacolista

Corse ad ostacoli. Stretching statico in posizione da ostacolista

Ai fini dell’allenamento di un atleta, questo tipo risulta dannoso prima di uno sforzo massimale (una seduta di allenamento o una gara) perché numerosi studi hanno evidenziato che inibirebbe la funzione di quel muscolo o distretto muscolare, in termini di forza, per almeno le due ore successive. Per questo motivo durante il riscaldamento l’atleta può fare esercizi di stretching dinamico, cioè un continuo “allungare-accorciare” il muscolo, combinato con esercizi di mobilità articolare per migliorarne il grado di movimento. La pratica dello stretching si basa sulla conoscenza delle basi anatomo-fisiologiche della mobilità, della biomeccanica dei gesti tecnici, delle inserzioni muscolari e sui movimenti del muscolo in tutte le sue parti.

Stretching: la nostra guida (con video)

4.2.3 Mobilità articolare

Con mobilità articolare si intende la capacità di un articolazione di muoversi liberamente in tutto il suo range di movimento. Ovviamente ogni articolazione ha movimenti propri e gradi dello stesso diversi, dunque è presupposto fondamentale la loro conoscenza. Per un ostacolista l’integra funzionalità delle articolazioni, soprattutto quelle di caviglia, anca e colonna vertebrale è fondamentale così come la rieducazione dopo un infortunio per riequilibrare le forze. Ad esempio dopo lo stop per una distorsione alla caviglia, prima di riprende a correre è necessario riabilitarla per portarla allo stesso livello dell’altra.

 

CONCLUSIONI

Negli ultimi anni, l’Italia “degli ostacoli” è tornata a fare un’onesta figura sul palcoscenico europeo. A Goteborg, ai campionati continentali indoor del 2013, abbiamo conquistato un bronzo in campo femminile ed un argento in quello maschile nei 60hs, mentre ai recenti campionati europei outdoor di Zurigo un nono posto nei 100hs femminili ed un settimo nei 400hs sempre femminili. Durante le interviste, gli atleti oltre a ringraziare ovviamente la famiglia e il gruppo sportivo che li supporta, citano anche un centro medico o una persona (fisioterapista, medico o osteopata) che li ha aiutati durante il periodo di avvicinamento all’evento in virtù di qualche “acciacco”.

Ma è davvero necessario arrivare al punto da essere “tenuti insieme con la scotch”? Assolutamente no. Per questo il ruolo della prevenzione degli infortuni deve essere appunto quello di prevenire, evitare dove possibile l’insorgere di malesseri che rischiano di compromettere anni di lavoro volti ad una grande manifestazione. Ma gli atleti in primis e gli allenatori devono essere a loro volta educati alla prevenzione in base a conoscenze sul tipo di gesto tecnico della corsa e del passaggio dell’ostacolo, dell’articolazione di una stagione agonistica, delle diverse forme di allenamento, dei tipi di infortunio che possono interessare l’atleta e soprattutto del soggetto che abbiamo di fronte. In secondo luogo, il programma di allenamento deve vertere sul principio della progressività del carico e della personalizzazione, privilegiando la qualità degli esercizi rispetto alla quantità. La distinzione fra i programmi di allenamento del quattrocentista rispetto al centista tiene conto innanzitutto del tipo di gara che andranno ad affrontare: le differenze sulla tecnica e sulle abilità invece non dovrebbero essere così marcate perché apprese in giovane età.

A questo proposito, in base alle analisi fatte nei capitoli precedenti, ho stilato un esempio di protocollo di allenamento, indipendentemente dalla tipologia di lavoro (di corsa, di tecnica ostacoli o di pesi) adattabile ad atleti di entrambi i sessi e le specialità, maturi.

 

ESEMPIO DI PROTOCOLLO DI ALLENAMENTO

L’atleta che si presenta al campo per allenarsi deve avere un abbigliamento comodo e consono con le condizioni climatiche e calzature adatte al tipo di terreno su cui si svolgerà l’allenamento.

Partendo dal riscaldamento, l’atleta deve procedere ad attivarsi gradualmente, con un abbigliamento adeguato alla stagione e calzature che sostengano la sua corporatura. Gli esercizi di mobilità articolare e stretching dinamico devono essere il pane quotidiano per l’ostacolista: devono essere integrati nella prima parte dell’allenamento e inseriti secondo una progressione didattica se ci troviamo davanti ad un allievo poco mobile.

Corse ad ostacoli. Stretching statico in posizione da ostacolista

Classico esercizio di stretching statico denominato “da ostacolista”: un arto inferiore è teso a terra con piede perpendicolare al terreno mentre l’altro è ruotato in fuori a ginocchio flesso e piede in flessione plantare (angolo fra le cosce 90°). Il busto è perpendicolare al terreno e gli arti superiori opposti a quelli inferiori

 

[su_slider source="media: 25137,25136,25135,25134" limit="4" link="post" width="240" height="200" title="no" pages="no"]Un esempio di sequenza su come trasformare un esercizio di stretching statico in uno dinamico adattato alla situazione. Gli arti superiori mimano l’azione che hanno durante la corsa, quando il busto si flette in avanti l’arto opposto alla gamba tesa si allunga in avanti, come in fase di valicamento della barriera, per poi tornare con il gomito alto dietro. 

[su_slider source="media: 25142,25141,25140,25139,25138" limit="5" link="post" width="240" height="200" title="no" pages="no"]Un altro esempio di come rendere dinamico un esercizio statico: si tratta di un cambio di gamba nella posizione da ostacolista. L’azione del tallone permette di non far strisciare il piede per terra nel cambio gamba. Il busto è perpendicolare al terreno e le braccia si muovono alternate

La parte di mobilità può proseguire con esercizi analitici con gli ostacoli: questo non solo se l’atleta dovrà affrontare una seduta di tecnica o ritmica ostacoli, ma in qualsiasi circostanza, in modo da potenziare la propria mobilità. Molto importante in questa circostanza è allenare sia gli ostacolisti veloci che quelli del giro di pista ad esercizi bilaterali: nei 400isti sarà determinante nel caso di una ritmica pari, mentre nei 100isti aiuterà innanzitutto ad un bilanciamento posturale ed in secondo luogo ad una progressione della mobilità generale.

Mobilità dinamica hs 1 Mobilità dinamica hs 2 Mobilità dinamica hs 3
Un esercizio analitico di prima gamba che permette di aumentare la stabilità del corpo in equilibrio monopodalico e di flettere l’arto inferiori con angoli simili a quelli dell’attacco dell’ostacolo. Il corpo partendo dal piede fino alle spalle forma una linea verticale

 

Durante il riscaldamento si possono dedicare 5’ di esercizi di “core stability”, se precedentemente sono state fatte sedute anche esclusive per insegnare al soggetto i fondamenti di questa pratica.

Plank sui gomiti

Plank sui gomiti

 

Side-Plank sui gomiti

Side-Plank sui gomiti

 

 

L’approccio graduale permette non solo di mettere l’atleta nelle condizioni di saper eseguire questa serie di esercizi, ma anche di aumentare progressivamente il carico (numero di serie, secondi dell’esercizio, passaggio da “statico” a “dinamico”), senza sovraccaricare le strutture.

[su_slider source="media: 25157,25158,25159" limit="3" link="post" width="240" height="200" title="no" pages="no"]Passaggio da un esercizio statico di core stability ad uno dinamico senza modificare la posizione di partenza

Le andature, eseguite prima di passare al corpo centrale dell’allenamento perfezionano il riscaldamento. È bene variare gli esercizi, alternandoli, in modo da non abituare l’atleta e a fare in modo che il livello di attenzione non cali, così come l’attivazione neuro-muscolare. È da preferire l’erba, dove possibile, sia per il riscaldamento che per le andature: questo perché è un tipo di terreno più morbido sia di alcune pista che dell’asfalto. In questo modo i tendini e le strutture del piede non rischiano di soffrire di tendiniti o microfratture che condannano l’atleta ad un lungo periodo lontano dalla pista.

Il corpo centrale dell’allenamento, indipendentemente dal tipo di lavoro (lavoro di corsa, di ritmica ostacoli, di pesi, di recupero) deve essere affrontato al massimo anche dal punto di vista nervoso: la focalizzazione su ciò che bisogna fare permette così di impedire che la fatica o la stanchezza siano la causa di infortuni considerati “stupidi”, cioè che scaturiscono dalla disattenzione. Ecco un esempio di distorsione di una caviglia durante una seduta di tecnica di ostacoli: il piede non è “pronto” alla discesa dell’ostacolo perché l’atleta sta semplicemente eseguendo un altro esercizio di una serie e non l’esercizio. L’allenatore, che precedentemente ha curato l’allenamento, deve preoccuparsi di analizzare i feed-back dell’atleta durante la sua esecuzione: l’allenamento risulta “non allenante” se l’atleta viene sovraccaricato o se la sua esecuzione si discosta da quella consueta, quindi aumenta il rischio di infortunio.

Al termine dell’allenamento è bene concludere con un defaticamento sia a livello fisico che psicologico: corsetta lenta ed esercizi di stretching, questa volta statico, permettono un rilassamento globale dell’atleta. In base alla seduta di allenamento affrontata, sono normali dolori localizzati tardivi ai distretti muscolari interessati (cosiddetti DOMS) quindi sia l’atleta che l’allenatore non devono preoccuparsi o frenare la preparazione per questi indolenzimenti. Differentemente se persistono o se non sono giustificati, qualche giorno di riposo ed una visita da uno specialista non guastano, anzi giovano sicuramente ad un intervento tempestivo e dunque ad un recupero tempisticamente efficace.

Questo avviene quando ci troviamo davanti ad un atleta maturo, con un ampio bagaglio motorio che permette così di variare i metodi e le modalità di allenamento nel corso dell’anno o delle stagioni. L’elemento fondamentale per ogni buona programmazione di allenamenti rimane la progressività del carico: in questo modo, grazie alla verifica tramite test dei parametri essenziali per la performance (prove di potenza lattacida per i 400isti e di velocità per gli ostacolisti veloci) l’allenatore può variare la natura dell’allenamento, orientandolo verso le carenze.

I test elencati nel capitolo precedente, come valutazione dello stato di competenze iniziali dell’atleta, possono essere somministrati con scadenze mensili come verifica del lavoro svolto e dunque utilizzabili come indice di riferimento di possibili miglioramenti.

  

BIBLIOGRAFIA

Fidal-Centro studi & ricerche (1999). Il manuale dell’istruttore di atletica leggera (pp. 113-134)

Dal Monte, M. Faina (1999). Valutazione dell’atleta, UTET (pp.337-341)

Weineck (II edizione italiana 2009). L’allenamento ottimale, Calzetti-Mariucci editori (pp.53-59)

P.Zeppilli (III edizione 2011). Manuale di medicina dello sport, Casa Editrice Scientifica Nazionale (pp.201-249)

Pirola (ristampa 2012). Cinesiologia, il movimento umano applicato alla rieducazione e alle attività sportive, Edi-Ermes

Peggy A. Houglum (Third ediction). Therapeutic exercise for musculoskeletal injuries (pp.370-374)

E.E.Arakeljan, E.A.Razumovskij, L.A.Chereneva (1989). La corsa ad ostacoli, da LEGKAJAATLETIKA: manuale di Atletica Leggera per gli Istituti di Cultura Fisica dell’URSS. Ed. Fiskultura i Sport, Mosca. Traduzione a cura di L.Bagoli

MATERIALE TRATTO DA CONVEGNI

Gli ostacoli in Italia e nel mondo, Torino 23 marzo 2014. Con Eddy Ottoz, Maria Caravelli, Marcello Ambrogi, Roberto Bedini, a cura di Officina Atletica (sito internet www.officinaatletica.blogspot.it)

Dall’analisi biomeccanica delle corse di velocità e ostacoli alla pratica sul campo, Saronno 29-30 marzo 2014. Con Vincenzo De Luca, a cura di FIDAL Lombardia

La prevenzione degli infortuni in atletica leggera, dalla teoria alla pratica. Chiari 7 dicembre 2013. Con Maurizio Tripodi, a cura di Officina Atletica


RINGRAZIAMENTI

Ringrazio il mio relatore, professor Botton per avermi dato la possibilità di sviluppare il mio elaborato e il professor Tripodi per avermi sostenuto durante la stesura dello scritto.

Desidero ringraziare profondamente i miei genitori che mi sostengono ogni giorno in ogni scelta della mia vita e i miei fratelli che con le loro famiglie mi fanno sentire supportata e amata.

Ringrazio anche il mio allenatore e i miei compagni di allenamento, con cui condivido fatica e passione per raggiungere ogni traguardo della carriera sportiva e accademica.

Infine un sentito grazie ai miei amici d’infanzia che, nonostante le diverse strade intraprese, non smettono di dimostrarmi la loro amicizia.

 

Di Michela Pellanda

michela pellanda

Michela Pellanda

Laureata in Scienze Motorie
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Filed Under: Corsa a ostacoli, Infortuni, Infortuni nella corsa Tagged With: 100 ostacoli, 110 ostacoli, 400 ostacoli, core, infortuni, Michela Pellanda, mobilità, ostacoli, prevenzione infortuni, Scienze motorie, Stretching, tesi di laurea

Flessibilità degli ischiocrurali. Neurodinamica o stretching?

8 Giugno 2016 by Redazione

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Tra i vari fattori predisponenti una lesione agli ischiocrurali sono emersi dalla letteratura  un insufficiente riscaldamento, poca flessibilità, squilibri muscolari, tensione neurale e precedenti lesioni.

Un’inadeguata flessibilità del compartimento posteriore della coscia sembra essere l’elemento più accettato e accreditato quale fattore di rischio. Una delle più recenti revisioni non ha però confermato l’evidenza del solo stretching come intervento preventivo nelle lesione agli ischiocrurali.

 

Come mai?

L’incremento della flessibilità dopo una seduta di stretching potrebbe essere dovuto non da una variazione delle proprietà biomeccaniche del muscolo, quanto piuttosto nella modificazione della percezione dell’individuo in riferimento alla sensazione di tensione o dolore provata. Il punto di limitazione nell’estensibilità dei flessori potrebbe quindi incrementare non per modifiche strutturali del muscolo stesso quanto piuttosto al fatto che l’atleta o paziente percepisca un nuovo punto di “stop”, basato sulla nuova sensazione individuale di tensione e dolore: questa è quella che viene definita la sensory theory. L’incremento nell’estensibilità dei flessori dopo l’esecuzione dello stretching è verosimilmente dovuta ad un cambiamento della sensibilità del soggetto alla tensione e dolore; cambiamenti nella mobilità del sistema nervoso (in altre parole cambiamenti neurodinamici) raggiunti attraverso esercizi di mobilità e stretching potrebbero spiegare tale cambiamento nella sensibilità.

Una ridotta flessibilità degli ischiocrurali, come evidenziato da un ridotto range nell’SLR test (Straight Leg Raise test), potrebbe quindi essere causata da un’alterata neurodinamica dei nervi sciatico, tibiale e peroneale. Questa alterazione nella dinamica neurale è in grado di influenzare la lunghezza di riposo del muscolo e portare ad una distorta percezione di stretch e dolore. Eseguire movimenti di scorrimento (slider) del nervo o dello stretching (tensioner) vanno a modificare tale dinamica e la sensazione di tensione e dolore percepita dal soggetto, spiegando così l’incremento nella flessibilità ottenuto.

SLR test

Figura 1. SLR test

 

La meccanosensibilità delle strutture neurali nella gamba e coscia posteriore, a livello gluteo e nel canale vertebrale giocano un ruolo fondamentale nel determinare la flessibilità degli ischiocrurali. Una contrazione muscolare protettiva originatasi in caso di alterata neurodinamica è in grado di spiegare la rigidità dei flessori predisponendo così il muscolo a successive lesioni.

Tecniche di slider (scorrimento) neurodinamiche sono in grado di favorire una riduzione nella sensibilità meccanica neurale ed è possibile che l’implemento di tali tecniche nella prevenzione delle lesione ai flessori possano essere di notevole aiuto e beneficio.

In un recente studio (Caballero, De la Penas, 2014) si è valutata la differenza nel range dell’SLR raggiunto comparando tre gruppi di intervento in pazienti con ridotta flessibilità degli ischiocrurali:

I tre gruppi di intervento sono stati:

  • Tecniche di slider neurodinamico al nervo sciatico
  • Stretching degli ischiocrurali
  • Gruppo placebo

Il test SLR è stato utilizzato come misura del cambiamento pre-post trattamento.

Il test SLR viene eseguito e standardizzato nella seguente maniera: con il ginocchio in completa estensione e la caviglia in posizione neutra, il fisioterapista afferra la caviglia/tibia distale ed eleva la gamba del paziente evitando qualsiasi rotazione durante la flessione dell’anca. Il limite massimo di elevazione lo si raggiunge quando il soggetto lamenta rigidità o dolore nella regione della coscia e/o piega il ginocchio e/o comincia ad andare in rotazione posteriore dell’ileo.

 

TIPI DI INTERVENTO

Gruppo 1) Tecniche di slider neurodinamico del nervo sciatico: l’obiettivo è quello di produrre movimento  di scivolamento del nervo relativamente alle strutture adiacenti. Viene quindi applicato movimento/stress prossimale mentre in maniera contemporanea viene rimosso distalmente, e viceversa nel sequenza opposta. In questo studio il paziente è stato posizionato supino con il collo e la colonna toracica supportata in flessione; il terapista dinamicamente alternava flessione di anca e di ginocchio ad estensione degli stessi.

Figura 2 Tecnica di slider neurodinamico del nervo sciatico

Figura 2 Tecnica di slider neurodinamico del nervo sciatico

Gruppo 2) Stretching passivo: il fisioterapista portava la gamba del paziente in posizione di stretch degli ischiocrurali (anca flessa e ginocchio esteso) senza avvertire dolore o discomfort ma solamente una sensazione di resistenza al movimento . La posizione veniva così mantenuta per 30 secondi e ripetuta 5 volte.

Stretching statico ischiocrurali

Figura 3 Stretching statico degli ischiocrurali

 

 

RISULTATI

Il gruppo di intervento neurodinamico ha ottenuto miglioramenti superiori nell’SLR rispetto al gruppo di stretching passivo. Anche se entrambi i gruppi di lavoro hanno ottenuto un guadagno del range in SLR rispetto al pre-test, la differenza pre-post intervento è risultata significativa solamente nel gruppo neurodinamico. Questo sta ad indicare che un trattamento di slider neurodinamico del nervo sciatico è in grado di produrre miglioramenti nel range di flessione d’anca nell’SLR rispetto ad un intervento di stretching passivo. Da qui il ruolo potenziale dell’aumentata meccanosensitività del tessuto neurale quale limitante l’SLR.

Come già accennato, incrementare la flessibilità degli ischiocrurali è un fattore importante nel trattamento e prevenzione di numerose problematiche da overuse degli arti inferiori.

Un’ aumentata sensibilità del tessuto neurale si presenta clinicamente come rigidità dei flessori (ischiocrurali), ed entra in gioco quale possibile fattore di rischio o di diagnosi differenziale nelle “hamstring strain injury”.

La SENSORY THEORY proposta ci indica quindi che la flessibilità muscolare e la conseguente risposta allo stretch ha più a che fare con la percezione dell’allungamento e dolore e non tanto all’effetto biomeccanico sul muscolo in se stesso.

L’utilizzo dello stretching muscolare è indicato quando c’è un’alterazione delle proprietà viscoelastiche del muscolo, suggerendo e distinguendo l’importanza tra un reale piuttosto che un apparente incremento nella flessibilità muscolare. L’incremento nell’SLR dopo un intervento di stretching potrebbe essere più associato ad un incremento nella tolleranza all’allungamento piuttosto che a reali cambiamenti nell’elasticità muscolare.

 

CONCLUSIONI

Un trattamento di slider neurodinamico è in grado di incrementare la flessibilità degli ischiocrurali, così come misurato attraverso l’SLR, in maniera significativamente maggiore rispetto allo stretching statico.

Di fondamentale importanza rimane tuttavia la giusta selezione dei pazienti in cui è indicato un simile approccio terapeutico.

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Matteo Pinelli

Fisioterapista
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Filed Under: Infortuni, News Tagged With: flessibilità, flessibilità ischiocrurali, infortuni, ischiocrurali, neurodinamica, prevenzione, SENSORY THEORY, slr test, Stretching

Il riscaldamento dell'atleta

29 Gennaio 2016 by Redazione

L’organizzazione di una seduta di allenamento o di gara si compone generalmente in 3 fasi principali:

  1. Fase di riscaldamento (preparazione alla parte fondamentale);
  2. Fase fondamentale o centrale (fase di allenamento vera e propria oppure gara);
  3. Fase conclusiva (defaticamento, rilassamento muscolare)

In questa serie di articoli tratteremo della prima fase, quella di riscaldamento e dei concetti che vanno tenuti presente per una sua buona progettazione

 

Definizione ed obiettivi del riscaldamento

Il riscaldamento costituisce la parte iniziale di ogni allenamento o competizione, ed ha l’obiettivo di preparare gli atleti dal punto di vista psicologico e fisiologico alla fase centrale della sessione di allenamento o alla gara.

Prima dell’allenamento l’organismo dell’atleta si trova regolato su un “rendimento normale”, il riscaldamento ha il compito di elevare la disponibilità dell’organismo al lavoro ed alla prestazione successivi.

Un riscaldamento eseguito bene:

  • prepara l’atleta dal punto di vista fisiologico;
  • prepara l’atleta del punto di vista tecnico;
  • aiuta a prevenire gli infortuni;
  • prepara l’atleta dal punto di vista psicologico;
  • prepara e sostiene alla prestazione successiva;

 

Caratteristiche di un buon riscaldamento

L’allenatore deve essere in grado di proporre un’ideale sequenza di riscaldamento che porti l’atleta, in maniera graduale e sistematica, ad essere pronto dal punto di vista psicofisico allo sforzo successivo.

Per meglio comprendere è utile dividere tale fase in 2 ulteriori sotto-fasi:

  • Riscaldamento generale, costituito da vari esercizi a carico naturale ed esercitazioni tendenti a preparare l’organismo in maniera globale, rappresenta il 70%-85% della durata dell’intero riscaldamento;[su_spacer]
  • Riscaldamento specifico, ha l’obiettivo di preparare in maniera specifica l’organismo allo sforzo successivo, attraverso esercitazioni simili o uguali a quelli che si andranno ad eseguire nella fase centrale dell’allenamento, con la variante di un’intensità ed un volume minori. La sua durata rappresenta il 30% ed il 15% del riscaldamento globale.

Nella “progettazione” del riscaldamento tenere presente i seguenti fattori:

  • Stato di allenamento ed età dell’atleta;[su_spacer]
  • Tipologia nervosa dell’atleta, atleti molto calmi e rilassati possono giovare di riscaldamenti maggiormente intensivi, i soggetti “nervosi” necessitano di un riscaldamento più blando e prolungato;[su_spacer]
  • Tipologia di sforzo che si ha la necessità di preparare: il riscaldamento, soprattutto nella sua “fase specifica” sarà molto diverso a seconda dello sforzo che dobbiamo svolgere successivamente; ad esempio un atleta che deve svolgere una seduta di corsa a ritmo del fondo lento necessiterà di un riscaldamento estremamente diverso rispetto ad un velocista che deve svolgere un allenamento di sprint a velocità quasi massimali;[su_spacer]
  • Durata dell’effetto; gli effetti fisiologici del riscaldamento sull’organismo durano tra i 20′ ed i 30′; in caso di interruzione o di posticipazione dello sforzo (capita soprattutto in competizione) “mantenersi riscaldati” passivamente ed in caso utilizzare un programma di riscaldamento ridotto;[su_spacer]
  • Appena dopo il termine della fase di riscaldamento l’organismo si trova in una fase di leggero affaticamento, andrebbe lasciato a riposo (circa 5′ – max 10′) prima dello sforzo successivo (molto importante in funzione di gare e di sforzi massimali dove si richiedono alte prestazioni); in gara utilizzare questo periodo di tempo per esercitazioni di preparazione mentale;[su_spacer]
  • Le condizioni atmosferiche; aumentare la durata del riscaldamento e la sua gradualità in caso di temperature rigide (in inverno); in estate, con temperature più elevate, la muscolatura raggiunge la condizione desiderata in un tempo minore.

 

Come svolgere il riscaldamento:

  • Iniziare con esercitazioni generali che interessano tutto il corpo, ad intensità scarsa e progressivamente crescente;[su_spacer]
  • Aggiungere esercitazioni tecniche speciali, di mobilità articolare attiva;[su_spacer]
  • Aumentare gradualmente l’intensità fino ad arrivare a sforzi simili a quelli della fase centrale (allenamento o gara);[su_spacer]
  • Attivare maggiormente i muscoli che saranno interessati allo sforzo successivo;[su_spacer]
  • Pianificare il programma di riscaldamento a seconda della struttura del movimento specifico successivo.

 

Effetti da ricercare nella fase di riscaldamento

[su_table]

Reazioni fisiologiche del riscaldamento (rispetto ad una situazione di mancato riscaldamento)
Aumento della temperatura (T°) muscolare
Minore resistenza viscosa del muscolo (miglior approvvigionamento di sostanze nutritizie e rimozione dei prodotti di scarto)
Aumento della rapidità di risposta agli stimoli nervosi
Miglioramento dell’efficienza cardiocircolatoria e respiratoria
Aumento dell’efficienza del metabolismo aerobico
Maggior scambio di O2 nei tessuti
Incremento dell’efficienza metabolica in tutto il corpo
Aumento della ventilazione polmonare
Miglioramento dell’irrorazione e dell’elasticità dei tessuti osseo e connettivo
Miglioramento della mobilità e dell’elasticità muscolari

[/su_table]

[su_divider top=”no” divider_color=”#8bc751″]

[su_table]

Regolazioni motorie del riscaldamento (rispetto ad una situazione di mancato riscaldamento)
Incremento della velocità di contrazione muscolare
Aumento della forza di contrazione muscolare
Incremento della coordinazione
Aumento della capacità di reazione

[/su_table]

[su_divider top=”no” divider_color=”#8bc751″]

[su_table]

Regolazioni psichiche del riscaldamento (rispetto ad una situazione di mancato riscaldamento)
Creazione disponibilità agonistica (tenere presente la tipologia nervosa); soprattutto in previsione della gara
Creazione stato ottimale di eccitazione nervosa
Concentrazione sul compito principale

[/su_table]

[su_divider top=”no” divider_color=”#8bc751″]

 

Un buon riscaldamento diminuisce la probabilità di infortuni?

Un riscaldamento ben fatto può aiutare a ridurre (NON si potrà mai azzerare) la probabilità di infortuni, grazie al miglioramento dell’elasticità muscolare, dei tendini e dei legamenti, all’aumento della mobilità delle articolazioni ed all’aumento della capacità e della disponibilità a reagire.

 

L’importanza dell’amento della T° muscolare e della T° centrale

Il riscaldamento per avere efficacia deve aumentare la temperature (T°) del corpo, necessaria a sviluppare una “riserva energetica” (calore) che sarà necessaria allo sforzo successivo.

L’aumento di temperatura mediante il riscaldamento avviene su 2 livelli:

  • A livello centrale (T°c): secondo Joch e Uckert (2001) un aumento della T° di 2°C permette una miglior efficacia delle reazioni chimiche dell’organismo. Questo si ottiene mediante esercitazioni la cui intensità aumenta gradualmente (non con sforzi intensi e duraturi)[su_spacer]
  •  A livello muscolare (T°m): Masterovoï (autore russo) nel 1966 ha iniziato a parlare, oltre di aumento di T°c anche di temperatura muscolare, conseguenza dell’aumento della vascolarizzazione dei gruppi muscolari interessati; l’obiettivo è raggiungere un aumento della T°m di 3°C

La T°c e la T°m evolvono in maniera diversa:

secondo Bisbop (2003) l’evoluzione della T°m è relativamente rapida (dai 3′ ai 5′) e sembra essere questa a svolgere un ruolo fondamentale nella prestazione sportiva, quella della T°c è più graduale e aumenta quando la T°m la supera.

Secondo Mohr e coll. (2004) la T°m, generalmente, aumenta di circa 3°C, con un aumento da circa 36°C a 39,4°C  (T°m del quadricipite nei giocatori di football dopo il riscaldamento). Secondo Joch e Uckert (2001) uno sforzo progressivo di 20′ su cicloergometro può aumentare la T°m di 2°C

Come già accennato prima la T°m dipende dalla vascolarizzazione e quindi per far salire la T° bisogna portare ad un aumento della circolazione sanguigna nel muscolo. L’autore russo (Masterovoi) ha constatato che soltanto contrazioni muscolari di una certa ampiezza ed intensità possono far “assumere al muscolo il ruolo di pompa sanguigna”.
Masterovoi nel 1964, propone un protocollo di riscaldamento detto “riscaldamento russo”, che presenteremo nel dettaglio in un prossimo articolo, in risposta all’inefficace (secondo l’autore) riscaldamento classico, che prevede una prima fase di contrazioni muscolari localizzate (sia concentriche che eccentriche) mediante esercitazioni analitiche a bassa resistenza (20% – 50% 1RM) con l’obiettivo di aumentare la vascolarizzazione del muscolo (fino a 3,4°C)

Nelle sue trattazioni lo studioso russo mostra, anche per avvalorare il proprio protocollo, che certe pratiche di warm-up classiche in realtà non portano ad un efficace aumento della temperatura e in alcuni casi possono creare anche dei problemi (in questo articolo accenneremo soltanto, ne tratteremo in maniera più dettagliata in un articolo successivo):

  • La corsa lenta, generalmente proposta all’inizio di ogni attività, non permette un’ideale contrazione della muscolatura interessata maggiormente durante la competizione (es: quadricipite, tricipite e ischio-crurali nello sprint o nella corsa di resistenza) e quindi non crea un’ideale attivazione della circolazione locale; ovviamente la sensazione, dopo 10′-20′ (in base anche alle condizioni atmosferiche) è quella di un “generale riscaldamento” che è dato dall’aumento della T°c, meno importante per la prestazione (e che in ogni caso risulta aumentata anche al termine di un “riscaldamento russo”) ma porta ad un ridotto aumento della T°m (da 0,2° a 1,6° C); inoltre per raggiungere tali temperature (1,6°) si necessita di una corsa continua protratta per almeno 20′, poco sostenibile per atleti di potenza (sprinter, lanciatori, saltatori, etc.)[su_spacer]
  • I movimenti rapidi sono poco efficaci per una migliore vascolarizzazione; ad esempio la contrazione muscolare dello skip o in uno sprint, essendo molto breve e violenta non permette un efficace aumento della T°m; non iniziare quindi il riscaldamento con movimenti rapidi ed esplosivi (anche se questo è anche buonsenso) [su_spacer]
  • Lo stretching statico, gli allungamenti provocano nel muscolo delle tensioni isometriche elevate che causano un’interruzione dell’irrorazione sanguigna (non stavamo ricercando la vascolarizzazione?) ed è forse questo il motivo per il quale una seduta di stretching statico con posizioni isometriche della durata di 20″-30″ porta ad un effetto negativo sulle capacità di forza (vedi la nostra guida sullo stretching); ovviamente un’alternanza di contrazioni muscolari e di periodi di allungamento (meglio se dinamico) permetteranno un’ideale apporto di sangue ai muscoli.

 

Organizzazione e psicologia del riscaldamento 

In linea con altri autori siamo dell’idea dell’importanza del riscaldamento sia nell’allenamento che in competizione, è fondamentale quindi che l‘allenatore proponga delle sequenze di esercitazioni con un obiettivo funzionale e specifico di volta in volta. Come abbiamo già visto in questi due articoli, Intervista a Loren Seagrave e Relazione convegno Stefano Serranò, al riscaldamento va posta estrema attenzione, addirittura in alcuni paesi esteri il riscaldamento è seguito e fatto svolgere da un coach specializzato nel warm-up (in Italia invece la tendenza è quella di essere dei tuttologi..), che viene proposto sotto varie forme a seconda dell’impegno che verrà affrontato successivamente.

Detto ciò crediamo sia importante, anche attraverso il riscaldamento, responsabilizzare gradualmente l’atleta con l’obiettivo di renderlo autonomo (almeno in alcune situazioni).

Ovviamente con i più giovani e con i principianti il riscaldamento deve essere seguito e controllato attentamente dal coach, ma gradualmente, con l’aumentare dell’esperienza dell’atleta, possono essere previsti dei momenti di “autogestione” nel quale si chiede agli atleti di decidere autonomamente le esercitazioni da utilizzare.

Questo porta ad una maggiore responsabilizzazione degli atleti che imparano anche a conoscere e “sentire” il proprio corpo e a scegliere  le esercitazioni migliori per se stessi.

Inoltre questi momenti di autogestione possono diventare, nel tempo, molto utili per creare un clima più rilassato (la progettazione e l’imposizione di ogni aspetto può diventare nel tempo molto stressante) e mantenere la giusta serenità nel gruppo di allenamento.

E quando ci si trova di fronte ad atleti già con una certa esperienza, ad esempio quando ad un raduno si propone qualcosa agli atleti solitamente seguiti da altri tecnici o quando iniziamo a seguire un atleta che precedentemente è stato allenato da altri?
Anche in questo caso prevedere momenti di “autogestione” può essere molto utile, i quanto si dà la possibilità all’atleta di lavorare su determinati aspetti (vedi esercitazioni di riscaldamento e/o allungamento più accentuate su un distretto muscolare con finalità preventiva) ritenuti importanti dall’atleta stesso (ricordiamoci che è l’atleta, quando ha maturato una certa esperienza, a conoscere e a sentire veramente quello che succede nel proprio corpo e non noi allenatori) e dal suo tecnico.
Inoltre questi momenti permettono di non rompere completamente una “routine”, magari errata, ma consolidata in diversi anni di allenamento, ricordandosi che una routine di riscaldamento che un atleta d’elite ha utilizzato per anni è difficile da cambiare drasticamente ed improvvisamente; il motivo è soprattutto psicologico. Ha senso secondo voi guadagnare un 2% nella prestazione, ma perdere il 20% della motivazione?

In ogni caso, anche quando il riscaldamento o una parte di esso è lasciato gestire all’atleta, la presenza del coach è fondamentale, in primis per controllare la qualità dei movimenti, ma anche per rendersi conto di quali esercitazioni l’atleta ricerca costantemente (probabilmente ne sente il bisogno dal punto di vista fisico e/o psicologico), in modo da integrare eventuali protocolli, che verranno proposti successivamente, con alcune esercitazioni preferite dall’atleta stesso.

 

Riscaldamento pre-allenamento o riscaldamento pre-competizione

Uno dei fattori da tenere presente nella preparazione e programmazione di un buon riscaldamento è il fatto che preceda una sessione di allenamento oppure una gara.

Per quanto riguarda il warm-up pre-allenamento, tenendo presente tutti i fattori e le indicazioni già elencate in precedenza, l’intensità della sua porzione specifica non richiede di essere molto consistente ed inoltre può essere pensato introducendo già degli stimoli allenanti ed affaticanti (esercitazioni di rinforzo, andature tecniche, esercitazioni esplosive, etc..). Ovviamente, come abbiamo già detto, va tenuto presente l’obiettivo della fase centrale di allenamento:

  • Per preparare un allenamento esplosivo o comunque ad al alta intensità (es. seduta di velocità per sprinter), l’atleta ha la necessità di preparare l’organismo ed in particolare il sistema neuromuscolare a contrazioni e reazioni veloci e rapide con alti livelli di coordinazione;
  • L’allenamento di resistenza a bassa intensità invece non necessità di tali stimoli e di conseguenza l’intensità globale del riscaldamento sarà minore.

 

Nel riscaldamento pre-gara l’obiettivo principale è quello di preparare l’organismo alla prestazione. Ovviamente anche in questo caso il warm-up deve preparare l’atleta dal punto di vista psicofisico, ma se vogliamo essere sicuri di non intaccare la capacità prestativa bisogna imparare a “dosare” in maniera ottimale le esercitazioni proposte. Questo è ovviamente soggettivo all’atleta che ci si trova davanti e deve tenere presente ancora una volta delle condizioni climatiche e del tipo di sforzo che la competizione richiede.

Ogni atleta dovrebbe, imparando a conoscersi e grazie anche al supporto e all’esperienza del proprio allenatore, crearsi una propria sequenza di esercitazioni che in un tempo prestabilito portino il proprio fisico ad essere pronto alla competizione (vedi “Organizzazione e psicologia del riscaldamento”).

Prima di una gara dobbiamo tenere presente:

  • stato nervoso dell’atleta (atleti molto calmi possono iniziare dopo il riscaldamento, quelli nervosi necessitano di riscaldamenti un po’ più lunghi in modo da avvicinarsi alla gara in modo metodico e maggiormente rilassato
  • eventuale inaccessibilità di piste e pedane e lontananza delle zone di riscaldamento da queste;
  • eventuale mancanza di spazio per un ottimale riscaldamento libero ed attivo;
  • competizioni con molte gare e batterie (tempi lunghi tra le partenze)
  • ritardi da parte degli organizzatori;
  • obbligo a rimanere fermi in camera d’appello per tempi molto lunghi, soprattutto nelle gare internazionali (studiare strategie ed esercitazioni passive e che comunque richiedono poco spazio per mantenere lo stato di riscaldamento raggiunti precedentemente);
  • evitare riscaldamenti eccessivamente prolungati che rischiano di consumare eccessivamente le energie psicofisiche dell’atleta (max 40′);
  • terminare il riscaldamento 5’/10′ prima dell’inizio della competizione (inserire ogni 1’/2′ esercizi che mantengano attivi i muscoli) e concentrarsi sull’aspetto mentale.

Se gli atleti devono affrontare più di una competizione (prove multiple, batterie e finali, oppure due tempi negli sport di squadra) il riscaldamento successivo alla prima competizione può essere accorciato, soprattutto nella fase generale di esso: ridurre la fase generale del riscaldamento passando più velocemente alle esercitazioni specifiche. Questo è valido se la fase di inattività precedente al secondo riscaldamento avviene in ambiente caldo e umido.

 

Perché effettuare un 2° riscaldamento ridotto in competizioni o allenamenti ravvicinati?

Questo è un consiglio molto diffuso, probabilmente più per “esperienza personale” dei coach che avendo provato sulla loro pelle sanno che se non passa molto tempo tra una competizione e l’altra (o un allenamento e l’altro) non è necessario prestare la stessa quantità di tempo per arrivare pronti allo sforzo successivo.

Personalmente con sono a conoscenza di ricerche scientifiche che avvalorano questa tesi, ma in letteratura ho trovato diverse ipotesi autorevoli e la più interessante è quella di Vern Gambetta che nel suo libro afferma:

anche se non dispongo di alcun dato scientifico, dopo il riscaldamento iniziale (quello della prima seduta), ho osservato quello che chiamo “effetto intasamento metabolico”. Quando c’è un riscaldamento iniziale, l’effetto metabolico sembra protrarsi per 2-3 ore, a volte anche più a lungo, in un ambiente caldo e umido (ovviamente, ndr). La temperatura interna dei muscoli e l’escursione di movimento non diminuiscono rapidamente con la cessazione dell’esercizio, specialmente se viene eseguito un defaticamento completo.
Se si prevedono più sedute di allenamento o competizioni in un giorno, non c’è bisogno di fare un secondo e un terzo riscaldamento in modo estensivo. Infatti ogni riscaldamento successivo dovrebbe essere più breve e più specifico rispetto alle necessità di ogni atleta. Ciò è importante in quanto permette di risparmiare energia e ottimizzare la prestazione.

Quindi ogni riscaldamento successivo deve essere meno lungo (nella sua parte generale) di quello precedente, a meno che il periodo che passa tra il defaticamento precedente e l’inizio del 2° riscaldamento non sia superiore alle 3 ore. Come tiene a precisare sempre Gambetta:

La parte più difficile nei riscaldamenti multipli è il lavoro sull’attivazione nervosa. In questo caso la difficoltà sta nel non eccedere tanto da indebolire il sistema nervoso.

 

Conclusioni

L’intenzione di questo articolo, è quella di presentare quali sono i concetti fondamentali e i fondamenti scientifici che vanno tenuti presente nella costruzione di una fase di riscaldamento adeguata alle esigenze dell’atleta e della situazione.

Ovviamente la specificità di ogni situazione non permette di dire “questo va bene sempre” e “questo non va ma i bene”.

Nei giovani e nei principianti, ad esempio, un riscaldamento ben fatto potrebbe rappresentare già un ottimo stimolo allenante (nelle prime fasi di adattamento) e di questo bisogna essere consapevoli per non sovraccaricare l’organismo.

Ogni tecnico, insieme ai propri atleti dovrebbe, grazie anche alle nozioni sopra descritte, essere in grado di adattare il riscaldamento alle variabili dell’allenamento.

A nostro avviso NON esiste un protocollo ideale (sopra abbiamo accennato a quello russo), ma vanno trovate le giuste combinazioni in base alle proprie esigenze.

Restiamo convinti che gli studi e le ricerche scientifiche senza una reale applicazione sul campo siano fondamentalmente inutili: è la pratica che può avvalorarle attraverso i risultati e il miglioramento della qualità degli allenamenti

Il consiglio è quello di testare in allenamento vari protocolli e, ascoltando anche i pareri e le sensazioni dei propri atleti, valutare pro e contro di ognuno di essi.

Con questo spirito nelle prossime pubblicazioni proporremo l’analisi di alcune metodologie di warm-up!!!

 

A cura di Andrea Dell’Angelo

 

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Bibliografia:

Jürgen Weineck, L’allenamento ottimale, Calzetti&Mariucci, 2007.

Gilles Cometti, L’allenamento della velocità, Società Stampa Sportiva Roma, 2002.

Mladen Jovanovic, Stability~Variability in Warm-up, http://complementarytraining.net/stabilityvariability-in-warm-up/, 2010

Gary Winkler, Il ruolo del riscaldamento: preparando l’atleta per l’allenamento e la competizione, Traduzione di Luciano Bagoli da Track and Field Coaching Manual (USA 1989) http://www.fidal-lombardia.it/pagine/tecnico/settori/riscaldamento%20dell’atleta.pdf

Vern Gambett, Lo sviluppo atletico. L’arte e la scienza dell’allenamento funzionale nello sport, Calzetti&Mariucci Editori, 2013

 

 

 

 

 

 

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Stretching: cosa dicono le ricerche

16 Luglio 2015 by Redazione

STRETCHING: COSA DICONO LE RICERCHE

Sulla base delle conoscenze attuali, in base alle numerose ricerche che esistono sullo stretching e sulle sue diverse applicazioni, possiamo affermare alcune considerazioni importanti riguardanti questa pratica. Cerchiamo quindi di fare chiarezza su questa pratica diffusa e forse fin troppo abusata da parte di alcuni atleti e allenatori.

 

Stretching e riscaldamento

Lo stretching non è il miglior mezzo sul quale basare la fase di riscaldamento pre-gara e/o pre-allenamento. Questo non significa assolutamente che non può trovare una posizione in quest’ambito, ma che al contrario debba essere integrato in un piano di riscaldamento basato essenzialmente su esercitazioni di tipo dinamico, che si rivelano senz’altro più adatte ad ottenere un idoneo innalzamento della temperatura muscolare sino al raggiungimento dei suoi livelli ideali.

La temperatura ideale alla quale il muscolo ottimizza le proprie caratteristiche visco-elastiche, è all’incirca di 39° C, a questa temperatura diminuisce infatti la viscosità dei tessuti, migliora l’elasticità dei tendini, si aumenta la velocità di conduzione nervosa e si modifica positivamente l’attività enzimatica, inoltre l’innalzamento della temperatura muscolare costituisce un’efficace misura preventiva nei confronti degli infortuni riducendo i rischi di stiramento o strappo muscolare.

Lo stretching è largamente utilizzato nell’ambito del riscaldamento tuttavia, secondo alcuni Autori (Alter, 1996; Wiemann e klee, 2000) la sua possibile efficacia nel provocare un innalzamento della temperatura del muscolo, sarebbe molto discutibile, tanto che alcuni studi dimostrerebbero addirittura un suo effetto negativo in questo senso. In effetti, occorre ricordare che il tipo d’azione muscolare che ritroviamo nel corso dello stretching è praticamente sovrapponibile a ciò che avviene in una contrazione eccentrica.

Dal momento che nel corso di una contrazione di tipo eccentrico, la vascolarizzazione muscolare viene interrotta ed il lavoro svolto diviene in tal modo di tipo anaerobico, determinando un aumento dell’acidosi, oltre ad una marcata anossia cellulare, è facilmente comprensibile come lo stretching non possa essere considerato come il mezzo d’elezione nell’ambito del riscaldamento. Utilizzare lo stretching come unico mezzo esclusivo sul quale basare il riscaldamento pre-gara e/o pre-allenamento, sembrerebbe quindi sicuramente insufficiente e scorretto. Tuttavia, integrare razionalmente lo stretching in uno schema di riscaldamento basato soprattutto su altri tipi d’esercitazione, maggiormente efficaci nel far aumentare la temperatura interna del muscolo, come un’idonea alternanza di contrazioni e rilassamenti, è sicuramente la scelta più corretta. Come ricorda Shrier (1999), non dobbiamo mai dimenticarci delle peculiarità della persona: molti atleti necessitano di un solo esercizio di allungamento per muscolo, mentre altri richiedono più esercizi e più tempo da dedicare allo stretching.

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Stretching e prevenzione dei danni muscolari

Non è razionale pensare che sia sufficiente una sola pratica dello stretching per poter prevenire in forma sistematica gli incidenti di natura muscolare. Data la multifattorialità degli infortuni, non è giustificato poter pensare ad una completa inutilità dello stretching in questo campo. La scelta più obiettiva e corretta sembrerebbe considerare lo stretching come uno dei molteplici mezzi di prevenzione da adottare nell’ambito di una strategia preventiva di tipo integrato e sinergico.

Una ricerca di Simic et Al. Del 2013 afferma che i risultati dimostrano chiaramente che lo Stretching Statico prima dell’esercizio ha un effetto negativo sulla forza muscolare massima e sulle prestazioni muscolari, mentre i corrispondenti effetti acuti sulla potenza muscolare rimangono ancora poco chiari. Questi risultati sono universali, indipendentemente dal soggetto di età, genere, o lo stato di formazione. Il meccanismo maggiormente correlato al possibile danneggiamento della fibra muscolare, risulterebbe essere la contrazione di tipo eccentrico. La ragione della maggior incidenza traumatica a livello muscolare, riscontrabile durante una situazione di contrazione eccentrica, è con ogni probabilità imputabile alla maggior produzione di forza registrabile nel corso di quest’ultima, rispetto a quanto non avvenga nella modalità di attivazione di tipo concentrico od isometrico.

Infatti durante una contrazione eccentrica, la forza espressa dal distretto muscolare risulta essere di ben tre volte maggiore di quella espressa, alla stessa velocità, durante una contrazione concentrica. Inoltre, durante una contrazione eccentrica, risulta maggiore anche la forza prodotta dagli elementi passivi del tessuto connettivo del muscolo sottoposto ad allungamento. Soprattutto in riferimento a questo dato, occorre sottolineare come anche il fenomeno puramente meccanico dell’elongazione, possa giocare un ruolo importante nell’insorgenza dell’evento traumatico. Durante la contrazione eccentrica il muscolo è in effetti sottoposto ad un fenomeno di “overstretching” che, in quanto tale, può determinare l’insorgenza di lesioni a livello dell’inserzione tendinea, della giunzione muscolo-tendinea, oppure a livello di una zona muscolare resa maggiormente fragile da un deficit di vascolarizzazione. E’ interessante notare come siano i muscoli bi-articolari quelli maggiormente esposti ad insulti traumatici, proprio per il fatto di dover controllare, attraverso la contrazione eccentrica, il range articolare di due o più articolazioni. Anche la diversa tipologia delle fibre muscolari presenta una differente incidenza di evento traumatico. Le fibre di tipo FT (fibre a contrazione rapida che intervengono nelle azioni muscolari rapide ed intense) sono infatti maggiormente esposte a danni strutturali rispetto alle ST (fibre muscolari a contrazione lenta, reclutate in azioni muscolari di scarsa entità ma di lunga durata) probabilmente a causa della loro maggior capacità contrattile, che si traduce in un’accresciuta produzione di forza, e di velocità di contrazione, rispetto alle fibre di tipo ST.

Inoltre i muscoli che presentano un’alta percentuale di FT, sono generalmente più superficiali e normalmente interessano due o più articolazioni, fattori entrambi predisponenti al danno strutturale. Inoltre è interessante notare come l’evento traumatico sia prevalentemente localizzato a livello della giunzione muscolo-tendinea, a testimonianza del fatto che in questa zona, si verifichi il maggior stress meccanico.

Per tutta questa serie di motivi lo stretching è stato sempre considerato come la miglior forma di prevenzione nei confronti dei danni muscolari. Tuttavia recentemente numerosi Autori, a seguito di protocolli di studio specifici, non hanno rilevato alcun beneficio, derivante da una pratica assidua e regolare dello stretching, nei riguardi della prevenzione dei danni all’UMT. Una possibile spiegazione di questa mancanza di correlazione tra capacità d’elongazione del muscolo e diminuzione degli incidenti muscolari, potrebbe risiedere nel fatto che in effetti lo stretching provoca una sorta di effetto antalgico nei confronti dell’allungamento stesso.

Shrier e Pope (2000), hanno mostrato che lo stretching effettuato prima dell’esercizio non ha alcun effetto nella prevenzione dei traumi, sia in acuto che in cronico. Altre ricerche (Hartig, 1999, Hilyer, 1990) non sono arrivate a stabilire un livello minimo di stretching, in termini di tempo al giorno, affinchè possa produrre risultati significativi. La pratica dello stretching indurrebbe quindi una diminuzione della sensazione dolorosa indotta dall’allungamento, data da un aumento della soglia dei nocirecettori, permettendo in tal modo all’atleta di sopportare allungamenti muscolari di maggiore entità, situazione che potrebbe anche paradossalmente aumentare il rischio di traumatismi a livello muscolare.

La considerazione finale sull’incidenza dello stretching sul rischio d’incidenti a livello muscolo-tendineo, è che comunque l’eziologia di tali eventi traumatici sia talmente multifattoriale da rendere improbabile l’ipotesi che in questo campo la pratica dello stretching possa costituire una sorta di rimedio universale, ma è molto più plausibile ed obiettivo considerare lo stretching come uno dei mezzi utilizzabili nell’ambito di un piano rivolto alla prevenzione degli incidenti muscolari.

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Stretching e prestazione

Sono molti gli studi ritrovabili in bibliografia che documentano (Wiemann e Klee, 2000; Fowles, 2000; Kekonen, 2001) in seguito ad una precedente seduta di stretching, una diminuzione della prestazione di sprint, una perdita della capacità di forza massimale e di resistenza alla forza, oppure di capacità di salto e quindi della possibilità da parte dell’UMT (unità muscolo tendinea) di accumulare energia elastica nel corso della fase eccentrica del movimento e di restituirla, sotto forma di lavoro meccanico, durante la fase concentrica dello stesso.

Una recente ricerca di Kay, A. D., and A. J. Blazevich del 2012, ha affermato che lo stretching statico per un totale di 45 sec può essere utilizzato come routine senza il rischio di una diminuzione significativa nella performance delle attività forza o di velocità. Per tempi di allungamento più lunghi(ad esempio, 60 s) ci sono maggiori probabilità di causare una piccola o moderata riduzione delle prestazioni. Questa perdita della capacità prestativa in seguito ad un seduta di stretching, trova sostanzialmente tre tipi di spiegazione.

In primo luogo, occorre sempre considerare il fatto che l’allungamento è, da un punto di vista biomeccanico, assimilabile ad una contrazione di tipo eccentrico, la cui intensità può raggiungere livelli di tipo massimale. Per questo motivo, facendo precedere alla prestazione, una seduta di stretching particolarmente intensa, si corre sia il rischio di produrre dei danni alla struttura muscolare. Un secondo fattore che potrebbe spiegare il fenomeno, è costituito dal fatto che un’eccessiva sollecitazione in allungamento di alcuni gruppi muscolari a discapito di altri, potrebbe costituire un fattore di perturbazione della coordinazione sia tra gruppi muscolari sinergici, che tra agonisti ed antagonisti. Un ultimofattore è costituito dal fatto che il tendine, nel corso di un allungamento di una certa intensità e durata, attraversa una fase di riorganizzazione delle proprie fibre di collagene che vengono nuovamente orientate meno obliquamente di quanto non fossero nella precedente fase di riposo.

Questo fenomeno va sotto il nome di “creeping” e comporta una diminuzione delle capacità del tendine, nel corso di un ciclo stiramento-accorciamento, di poter accumulare e restituire energia elastica. Dal momento che il tendine è il maggior interprete del fenomeno di risposta elastica, quest’ultimo fattore potrebbe assumere un ruolo determinante nella diminuzione delle capacità di salto registrabile in seguito ad una precedente intensa seduta di stretching.

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Stretching e prevenzione dei DOMS*: Delayed Onset Muscle Soreness

L’utilizzo dello stretching nella prevenzione del fenomeno del delayed onset muscle soreness apparirebbe ingiustificato e sostanzialmente inutile.

Il fenomeno del “delayed onset muscle soreness”, successivo ad un allenamento di tipo eccentrico ha un origine metabolica e meccanica ben precisa, è quindi molto probabile che la pratica dello stretching non abbia un’influenza di tipo positivo sul fenomeno in questione. Alcuni lavori testimoniano di come neppure una seduta di stretching effettuata prima di una seduta d’allenamento eccentrico, oppure durante, o dopo la stessa, sia in grado di diminuire la sensazione dolorosa percepita dagli atleti nell’ambito delle 24-48 ore susseguenti alla sessione di lavoro. Freiwald, 1999; Schober, 1990; affermano che lo stretching statico non rappresenta il miglior modo per facilitare il drenaggio del sangue, anzi, la compressione dei capillari interrompe la vascolarizzazione.

*DOMS (Delayed Onset Muscle Soreness): indolenzimento muscolare ad insorgenza ritardata, associato a un aumento dello sforzo fisico (sia come intensità che come volumi), è una normale risposta fisiologica a sforzi maggiori, o lo svolgimento di attività fisiche a cui non si è abituati (porta ad adattamento ad esso). Il dolore e il disagio associato ai DOMS solitamente raggiunge il picco tra le 24 e le 48 ore a seguito dell’esercizio fisico, e si estingue entro 96 ore.
Dai non addetti ai lavori è spesso ed erroneamente associato ad accumulo di acido lattico nei muscoli.

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Concludendo, come dobbiamo comportarci?

Abbiamo toccato diversi punti importanti in questo articolo che possono servire a tutti gli allenatori e atleti che si cimentano tutti i giorni nella pratica dello stretching, abbiamo chiarito alcuni dubbi attraverso spiegazioni dettagliate fornite da numerosi studiosi nel campo della ricerca dello sport.

Vediamo quindi alcuni messaggi importanti da portare con noi mentre andiamo al campo di allenamento, in pista o durante ogni nostra seduta di training:

  1. Non basiamo il riscaldamento solo esclusivamente sullo stretching ma integriamolo con altre esercitazioni dinamiche e sport specifiche.
  2. Lo stretching non previene gli infortuni ma è uno dei tanti mezzi che aiuta a prevenirli. La sola pratica dello stretching non è sufficiente e va integrata con altre pratiche poiché le cause degli infortuni sono molteplici.
  3. Lo stretching svolto prima di una prestazione di forza potrebbe creare una diminuzione di essa.
  4. Lo stretching non rappresenta il miglior modo per prevenire i DOMS dato che non facilita il drenaggio sanguigno poiché la compressione dei capillari interrompe la vascolarizzazione.

Maurizio Tripodi

un ringraziamento a Matteo Ferrari che mi ha aiutato nella stesura di questi articoli sullo stretching

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Gli altri articoli di Maurizio:

Prevenzione degli infortuni

Lo stretching: mezzi e metodi

Lo stretching: video pratico

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Le tecniche di stretching (video)

25 Giugno 2015 by Redazione

Video realizzato da Maurizio Tripodi sulle varie tecniche di stretching.

[su_youtube_advanced url=”https://youtu.be/9ts3Ox1c1xA” width=”560″ height=”440″ rel=”no”]Video 3° Batteria[/su_youtube_advanced]

Se volete comprendere meglio, dal punto di vista teorico, gli esercizi del video leggete l’articolo lo stretching.

 

A cura di Maurizio Tripodi

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Lo stretching: quello che dobbiamo sapere

18 Giugno 2015 by Redazione

Il termine “stretching” proviene dall’inglese to stretch, che significa allungamento, stiramento, e rappresenta la metodica di allenamento che viene utilizzata per migliorare la flessibilità muscolare attraverso l’esecuzione di esercizi, semplici o complessi, di stiramento. Lo stretching è arrivato in Europa e in Italia attraverso la ginnastica aerobica giunte come sempre da oltreoceano.

Nell’ambito della preparazione fisica, la comparsa degli esercizi di stretching ha rappresentato un passo in avanti in quanto gli atleti hanno imparato a prestare più attenzione alle differenti sollecitazioni dei diversi gruppi muscolari e alla loro mobilità articolare. Per tanti anni la pratica dello stretching è stata consigliata e se n’è fatto un abuso e un uso indiscriminato, poiché si riteneva che portasse solo benefici.

Ma in realtà, come tutti i mezzi di allenamento, ha diverse sfaccettature e non può essere usato in qualsiasi momento: bisogna tener conto ad esempio dell’obiettivo che si vuole raggiungere, del momento in cui viene proposto, del background motorio dell’atleta e dello sport specifico.

Per prima cosa cerchiamo di chiarire i concetti di mobilità articolare e flessibilità muscolo-articolare.

La mobilità articolare è la capacità di eseguire, nel rispetto dei limiti fisiologici imposti dalle articolazioni, dai muscoli e dalle strutture tendinee, tutti i movimenti con la massima ampiezza e naturalezza possibile, sia volontariamente che in presenza di forze esterne. La mobilità quindi non ha un significato generico, ma è specifica per una particolare articolazione o una serie di articolazioni, inoltre è specifica dell’azione svolta con l’articolazione stessa.

È considerata una capacità complessa in quanto dipende sia da fattori neurologici sia da fattori anatomici, per questo motivo non è compresa tra le capacità coordinative, nè tanto meno tra quelle condizionali, ma ha un ruolo a se stante.

Si valuta misurando il ROM cioè il “range of motion” delle varie articolazioni.

[su_divider top=”no” divider_color=”#8bc751″] [/su_divider]
La mobilità articolare dipende:

  • Dalla struttura dell’articolazione.
  • Dalle capacità elastiche di muscoli e tendini.

Oltre alle caratteristiche morfologiche sopra indicate, ci sono alcuni fattori che influenzano positivamente o negativamente la mobilità articolare; essi sono:

  • La temperatura ambientale.
  • Il grado di riscaldamento motorio raggiunto.
  • Un eccessivo lavoro di sviluppo muscolare.
  • L’età e il sesso.
  • Stati d’ansia e di stress.
  • Il livello di affaticamento del muscolo (limita l’azione dei muscoli agonisti e antagonisti).

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La mobilità articolare si distingue in:

Mobilità articolare attiva: la massima escursione di movimento di un’articolazione che un atleta può raggiungere contrendo i muscoli agonisti e allo stesso tempo, rilassando i muscoli antagonisti.

Mobilità articolare passiva: corrisponde alla massima escursione di movimento che un atleta può raggiungere in presenza di forze esterne (compagno o attrezzi) ed è basata sulla capacità di rilassamento e allungamento dei muscoli antagonisti.

Il tessuto connettivo è estensibile ma, se non viene regolarmente sollecitato con l’esercizio fisico, in breve tempo perde queste caratteristiche essenziali. La capacità dei muscoli di allungarsi durante il movimento consentito da un articolazione può essere definita come flessibilità muscolare e rappresenta una qualità che può essere migliorata con l’allenamento.

A sua volta la flessibilità muscolare può essere limitata alla capsula articolare, dall’attività della componente contrattile del muscolo, dal tessuto connettivo del muscolo stesso e dai suoi tendini, oltre che dalla cute. Unendo i due concetti possiamo quindi parlare di flessibilità muscolo – articolare.

 

[su_heading size=”20″]LE DIVERSE TECNICHE DI STRETCHING[/su_heading]

Lo stretching o allungamento è un importante anello di congiunzione tra la vita sedentaria e la vita attiva, mantiene l’elasticità dei muscoli, prepara al movimento, alla attività sportiva.
Eseguire l’allungamento prima e dopo l’attività fisica conserverà la vostra flessibilità e sarà utile a prevenire i traumi non dovete forzare i vostri limiti o ricercare il record giornaliero, è una tecnica che si riferisce alle vostre capacità individuali, alla vostra struttura muscolare, alla vostra flessibilità ed ai vari livelli di tensione.
L’obiettivo è quello di ridurre la tensione muscolare, favorendo la libertà di movimento e non quello di raggiungere la massima flessibilità che porta al sovra-stiramento e all’infortunio.
La respirazione dovrà essere lenta, ritmica e sotto controllo: espirate quando iniziate il movimento, mantenete la posizione respirando lentamente senza trattenere il respiro.

Gli esercizi di stretching sono praticati attraverso innumerevoli modalità, soprattutto dettate dal grado d’allenamento dell’atleta a cui vengono proposti, nonché dalla specificità della disciplina sportiva praticata.
E’ comunque possibile classificare lo stretching diverse categorie tecniche che prevedono modalità esecutive diverse tra loro:

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Stretching statico

Le tecniche di stretching statico, talvolta erroneamente confuse con quelle di stretching passivo, sono basate sul raggiungimento ed il mantenimento per un certo lasso di tempo, della massima posizione di allungamento possibile da parte dell’atleta.

Il metodo dello stretching statico prevede che si assuma lentamente una posizione di allungamento che dovrà essere successivamente mantenuta da un minimo di 10 ad un massimo di 60 secondi. Questo tipo di tecnica presenta alcuni vantaggi che sinteticamente possono essere elencati nei seguenti punti:

  • È sicura, di facile apprendimento e di semplice esecuzione.
  • Richiede un dispendio energetico molto contenuto.
  • Permette di superare la problematica inerente il riflesso da stiramento (recettori della tensione che proteggono il muscolo dal suo sviluppo eccessivo).
  • Se praticata in modo sufficientemente intenso, può indurre un rilassamento muscolare riflesso indotto dall’azione degli OTG.
  • Permette dei cambiamenti strutturali, in termini d’elongazione, di tipo semi-permanente.

Il principale svantaggio che lo stretching statico presenta, è la sua mancanza di specificità. In effetti la maggior parte delle discipline sportive contempla dei movimenti dinamici di tipo balistico, durante i quali l’UMT (unità muscolo tendinea) deve sopportare delle elongazioni violente e repentine.

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Stretching statico gastrocnemio

Lo stretching statico, pertanto, si presenta come scarsamente specifico nei confronti di tali situazioni.

Inoltre, occorre ricordare come il muscolo possegga due tipi recettori: i primi misurano sia la velocità, che la lunghezza dell’elongazione, mentre i secondi sono sensibili solamente ai cambiamenti di lunghezza, per questa ragione gli esercizi d’allungamento statico andrebbero accompagnati con quelli basati sull’allungamento dinamico.

Un’ulteriore problematica legata all’utilizzo dello stretching statico, è costituita dal suo possibile effetto negativo sulla produzione di forza muscolare, dimostrato già da diverse ricerche scientifiche. Le capacità contrattili del muscolo sottoposto ad un eccessivo carico d’allungamento, verrebbero infatti diminuite a causa di un cambiamento della capacità da parte del muscolo di assorbire e dissipare lo shock derivante da un carico esterno imposto, oltre che della sua capacità di stiffness ovvero la rigidità con la quale il sistema muscolo-tendineo reagisce al carico imposto.

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Stretching passivo

Nello stretching passivo, l’atleta è completamente rilassato e non partecipa attivamente al raggiungimento dei diversi gradi del ROM (range of motion), che invece sono raggiunti grazie all’applicazione di forze esterne create manualmente, come nel caso d’aiuto da parte di un terapista o di un compagno, oppure meccanicamente, grazie ad una strumentazione specifica. Questo tipo di tecnica è normalmente utilizzata in ambito riabilitativo, soprattutto nel caso in cui l’estensibilità del muscolo sottoposto ad allungamento sia limitata dall’azione degli antagonisti e dal tessuto connettivo. Tra i vantaggi che l’allungamento passivo presenta possiamo elencare:

  • La sua efficacia nel caso in cui i muscoli preposti all’allungamento attivo, ossia la muscolatura agonista, risultino troppo deboli per poter svolgere detto compito.
  • Si dimostra particolarmente efficace, quando altri tentativi, effettuati con differenti tecniche d’allungamento, hanno fallito nel tentativo di ridurre le tensioni muscolari presenti.
  • Permette un allungamento che può andare al di là del ROM attivo.
  • Aumento della tolleranza del dolore, con una diminuzione dell’input nervoso nei motoneuroni e una diminuzione del tono muscolare con una maggiore tolleranza allo stiramento.

L’aumento della emobilità articolare dopo un allenamento di allungamento intenso e durata adeguata sembra che debba essere attribuito all’interazione di meccanismi di adattamento diversi. Tra i possibili rischi dell’allungamento passivo, possiamo annoverare il rischio di lesione che può presentarsi nel caso in cui la differenza tra il range di flessibilità attiva e quello di flessibilità passiva sia considerevole. Inoltre, al contrario di quanto accade con i metodi attivi, non si rafforzano contemporaneamente gli antagonisti. Dal momento che il livello di flessibilità passiva non risulta correlato con il livello di attività sportiva, quest’ultima deve necessariamente essere supportata da un parallelo programma di lavoro costituito da esercizi di flessibilità attiva.

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Stretching attivo-isolato

Lo stretching attivo-isolato è un metodo di allungamento muscolare e rilascio fasciale, è una tecnica che fornisce un facile ed efficace stiramento dei principali gruppi muscolari, ma ancora più importante, fornisce il ripristino funzionale e fisiologico di piani fasciali superficiali e profondi. Questa forma di stretching riprogramma il cervello e il corpo di ricordare nuove forme di movimento, in modo da vedere dei miglioramenti rapidi in flessibilità.

L’esecuzione di un tratto isolato del corpo per non più di due secondi permette ai muscoli di allungarsi in modo ottimale, senza far scattare il riflesso di stiramento di protezione e la conseguente reciproca contrazione muscolare antagonista. Questa tecnica fornisce grandi benefici e può essere compiuta senza un’eccessiva tensione o un conseguente trauma.

Si possono eseguire 1 o 2 ripetizioni, mantenendo la posizione per 1 o 2 secondi partendo da 5 a 10 ripetizioni per tipo.

È importante ricordare che, durante l’esecuzione di un’esercitazione di stretching attivo, la tensione della muscolatura agonista contribuisce al rilassamento della muscolatura antagonista (ossia quella sottoposta ad allungamento), grazie al fenomeno dell’inibizione reciproca, che sta alla base di questa tecnica.

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Stretching dinamico
Lo stretching dinamico prevede movimenti la cui escursione articolare aumenta progressivamente, così come la velocità d’esecuzione. Lo stretching dinamico serve a riscaldare un muscolo o un gruppo di muscoli e a mobilizzare le articolazioni su cui questi passano, inoltre migliora la flessibilità dinamica, motivo per cui è particolarmente adatto ad essere inserito nella fase di riscaldamento di un allenamento.

Durante questo tipo di stretching, il movimento non prevede un’esecuzione “rimbalzante”, e soprattutto nella fase finale dell’esercizio, la velocità esecutiva globale è molto più controllata ed il movimento è eseguito in modo controllato sino ai limiti del proprio ROM.
Tuttavia bisogna sottolineare, che per ottenere il massimo vantaggio da un programma rivolto alla flessibilità, occorre che gli esercizi proposti siano velocità-specifici, è necessario quindi che la velocità d’allungamento adottata nel programma di stretching sia la più simile possibile a quella che si riscontra durante l’esecuzione dei gesti tecnici specifici nell’ambito della disciplina praticata.

Ecco il video per mostrare dal punto di vista pratico le principali tecniche.

Nel prossimo articolo discuteremo di quando è meglio utilizzare una tecnica e quando un’altra. Alla prossima ….

 

Articolo a cura di Maurizio Tripodi e Matteo Ferrari

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