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Misurare la flessibilità degli atleti per migliorare le performance

30 Novembre 2020 by Maurizio Tripodi

Misurare la flessibilità. Teast di Sit and reach
Nell'immagine l'atleta Alice Minuzzo che esegue il sit-and-rich-test. Realizzata da Sistemha 

 

"L’allenamento è un’arte che si basa sulla scienza … ed un allenamento senza valutazione è un itinerario senza meta."
Carmelo Bosco

Perché misurare la flessibilità dei nostri atleti

La flessibilità è una di quelle capacità motorie che spesso non vengono considerate fondamentali per la performance atletica, ma l'assenza di questa non permetterebbe alle altre capacità di esprimersi al meglio.

In atletica leggera abbiamo discipline dove avere una buona flessibilità è fondamentale al fine del risultato sportivo.

Infatti, avere una ridotta flessibilità non permetterebbe all'atleta di esprimere tutto il suo potenziale, per questo dobbiamo considerarla una capacità fondamentale ai fini di un’ottima performance sportiva.

Spesso gli atleti che partecipano a determinate discipline arrivano tra le mani del tecnico con un bagaglio genetico che li porta ad avere una buona flessibilità di base, ma questo non deve farci pensare di trascurare l'argomento.

Sappiamo con certezza che l'allenamento influisce sulla flessibilità del soggetto maggiormente della genetica.

Immaginate due gemelli, e quindi due soggetti con lo stesso patrimonio genetico, e immaginate che uno pratichi ginnastica artistica e l’altro basket: pensate che abbiano la stessa flessibilità?

Per migliorare è importante valutare il punto di partenza

Non esiste ad oggi una modalità per misurare la "flessibilità generale" di un soggetto.

La flessibilità è una capacità che identifica la libertà di movimento di una o più articolazioni, e per questo non ci basterà un solo parametro per avere un’idea dell'atleta che si ha davanti.

Sicuramente vi sarà capitato di conoscere atleti che mostrano grandi gradi di libertà di movimento degli arti inferiori a discapito di una grande rigidità della parte superiore.

Oppure, per esperienza ancora più frequente, soggetti che hanno una limitata flessibilità degli arti inferiori e un’eccessiva flessibilità del tratto lombare, condizione che spesso porta a problemi di colonna.

Come misurare la flessibilità?

Essendo una capacità che è "articolazione dipendente", per ogni articolazione o gruppo di articolazioni è previsto un test differente.

Naturalmente, saranno comparabili solo i test che vengono effettuati sulla stessa articolazione con la medesima misurazione.

Parlo di medesima misurazione, perché abbiamo la possibilità di misurare la flessibilità in due modi: i gradi angolari oppure le misure lineari.

Vi faccio un esempio

Per misurare la flessione di un ginocchio possiamo usare un goniometro per rilevare i gradi della massima flessione e massima estensione, deducendone così i gradi di ROM (range of movement) dell'articolazione; per misurare la flessibilità della catena posteriore possiamo usare i centimetri lineari, che separano le punte delle dita della mano dalle punte delle dita dei piedi in un esercizio come il sit and rich (Immagine in alto).

Questa misura ha il compito di dare un parametro di flessibilità delle articolazioni interessate in quello specifico movimento.

Quindi, la prima cosa che deve fare il tecnico è identificare quali articolazioni o gruppo di articolazioni è più intelligente monitorare, al fine della performance che dovrà esprimere l'atleta.

Non esistono ad oggi parametri che ci consentano di dire che per una disciplina sia più intelligente misurare un’articolazione piuttosto che un’altra.

Sarebbe vantaggioso capire quale articolazione misurare per ogni specifica disciplina, ma per fare questo bisognerebbe avere un gruppo di tecnici di disciplina che si impegnano a scambiarsi le informazioni necessarie ad identificarle (tecnici de ilcoach.net mi metto a disposizione se foste interessati a questa ricerca).

Molto probabilmente, l'ideale sarebbe costruire una batteria di test che possano dare una visione il più precisa possibile della flessibilità dell'atleta in analisi.

È anche per questo motivo che non esiste una standardizzazione universalmente riconosciuta del test di flessibilità più utilizzato, il sit-and-rich-test. Infatti, differenti agenzie mostrano protocolli differenti nell’esecuzione della misurazione.

Per questo, non penso che il tecnico si debba troppo soffermare su come effettuare la misurazione, meglio dedicarsi all'analisi di evoluzione del dato.

Quando misurare la flessibilità?   

Una volta identificati i test che riteniamo più utile svolgere, vi raccomando di effettuarli in condizione di riposo o dopo un leggero riscaldamento (e di usare sempre la medesima prassi).

Chiunque abbia praticato sport sa che fare lo stretching all'inizio dell'allenamento o prima della gara, permette di raggiungere range articolari impossibili da raggiungere al termine dell’allenamento o della gara.

Svolgere i test all'inizio dell'allenamento renderà sicuramente più valido il dato estrapolato.

La flessibilità è una capacità che possiede la caratteristica di variare molto velocemente, quindi ricordate che la misurazione che state svolgendo è la fotografia di quell'istante, e non rappresenta sicuramente la flessibilità di quel soggetto in un periodo di tempo lungo.

Pensate a quando un vostro atleta subisce un piccolo infortunio o quando è affaticato per via del carico di allenamento dei giorni precedenti; in questi casi si sono subite delle riduzioni di flessibilità (che chi ha fatto l'atleta conosce bene).

E quindi, quando misurarla per avere un dato utile al tecnico e alla programmazione del lavoro?

A mio avviso, la scelta di quando e come misurare la flessibilità, deve andare di pari passo a quella che è la programmazione e la periodizzazione del lavoro che avete impostato.

Ogni disciplina ha le sue caratteristiche e queste richiedono programmazioni e allenamenti molto diversi tra loro.

Per questo non mi permetto di dare delle indicazioni che potrebbero essere perfette per alcuni e sbagliate per altri.

Pensando a un’operazione di monitoraggio continuativa, potrebbe essere interessante svolgere 2/3 semplici test tutte le settimane. I test dovranno avere la caratteristica di poter essere svolti dall'atleta in maniera autonoma, cosi da non perdere tempo. Al campo si va per allenarsi, non per misurarsi continuamente. Un monitoraggio di questo genere potrebbe darci delle indicazioni continue sullo stato del nostro atleta.

Conclusioni

Per rispondere con coerenza alle domande: perché, come e quando misurare la flessibilità, dobbiamo prima fare un’operazione di monitoraggio collettivo.

Ad oggi, non abbiamo abbastanza dati per indicare delle linee guida; è compito di noi tecnici e trainer costruire un database che possa dare delle risposte a questi quesiti.

Io e la mia struttura ci mettiamo a disposizione se un gruppo di tecnici si volesse mettere in gioco per cominciare quest’avventura.

Ritengo non sia difficile grazie alle nuove tecnologie, tutto sta nel mettersi in gioco, e a far questo, chi si occupa di sport, dovrebbe essere capace!

Letture consigliate

Stretching e flessibilità. Teoria, tecnica e didattica

Maurizio Tripodi

Prof. Maurizio Tripodi

Laureato Magistrale Scienze Motorie | Professore Università Cattolica di Milano
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I 5 esercizi di stretching statico per prevenire la sindrome della bandelletta

29 Aprile 2019 by Redazione

stretching bandelletta

La sindrome della bandelletta ileotibiale, chi corre sa di cosa sto parlando. Si tratta di un dolore che lamentano i runners e i saltatori sulla parte laterale del ginocchio, questo spesso arriva a non permettere di correre. Si tratta di una infiammazione che colpisce la fascia connettivale del tensore della fascia lata, molto spesso causata da un cattivo equilibrio muscolare di anca e caviglia.

Sindrome della bandelletta ileotibiale: quali le cause?

Questo tipo di problematica è definibile come infortunio da over-use, cioè causato da un continuo utilizzo che ha portato a questa infiammazione da sovraccarico. Sarebbe più corretto dire che è un infiammazione da "sovraccarico mal distribuito", perché non è tanto il "quanto correte" che accumula l'infortunio, ma il "come correte" che è la causa dell'infiammazione.

Vi suggerisco di riguardare l'articolo sul ciclo cumulativo dell'infortunio

5 esercizi di stretching statico per prevenire la sindrome della bandeletta

Qui di seguito, vi mostreremo 5 esercizi di stretching statico, utili a mantenere una corretta lunghezza dei muscoli solitamente retratti nei  soggetti predisposti a questo infortunio da over-use.

Questi esercizi servono a "prevenire", quindi bisognerebbe mettersi nell'ottica di farli quando si sta bene, e non quando i primi sintomi del problema sono già comparsi.

Al comparire dei primi dolori,  è meglio cominciare con un allenamento terapeutico fatto su misura per voi, e per questo vi chiedo di contattare qualcuno che possa darvi una mano a riguardo, improvvisare o seguire un protocollo standard non sempre da i risultati voluti. Non starò a descrivere con minuziosità gli esercizi che sicuramente già conoscete, ma vi darò delle dritte per renderne più efficace l'esecuzione.

Per comprendere meglio la differenza tra le varie metodiche di stretching guarda l'articolo Stretching: la nostra guida

Allungamento degli adduttori 2 serie da 30 secondi

Portare il carico su una gamba mandando in allungamento l'adduttore opposto, variare la posizione del tronco da piu flessa (in foto) a più estesa, aiuta ad allungare tutta la muscolatura interessata all'adduzione.

Prevenire la bandelletta ileotibiale. Allungamento degli adduttori 2 serie da 30 secondi

Allungamento del gastrocnemio 2 serie da 30 secondi

Non spingete il muro! non serve. Messi in posizione i piedi,  portare avanti il bacino, questo porta ad una flessione dorsale passiva della caviglia causando l'allungamento del gastrocnemio. Spingere il muro è fatica sprecata. Ricordatevi che per fare stretching non bisogna fare fatica, ma bisogna essere in uno stato di rilassamento.

Prevenire la bandelletta ileotibiale. Allungamento del gastrocnemio 2 serie da 30 secondi

Allungamento del quadricipite 2 serie da 30 secondi

Quando svolgete questo esercizio portate sempre attenzione a due cose :

  1. il rapporto tra le due ginocchia (devono essere vicine tra loro) ;
  2. l'atteggiamento del bacino (più sarà retro-verso più manderà in tensione i flessori dell'anca).

Questi due riferimenti vi daranno una mano a modulare la tensione.

Allungamento quadricipiti - 2 serie da 30"

Allungamento hamstring 2 serie 30 secondi

Appoggiatevi se avete difficoltà a mantenere questa posizione, se c'è contrazione non possiamo rilassare. Una volta messo il piede sul rialzo, ruotare il tronco verso la gamba flessa. Variare la posizione del piede di appoggio per cambiare il livello di tensione, più è intra-ruotato più mandiamo in tensione il bicipite.

Allungamento del bicipite femorale 2 serie da 30 secondi

Allungamento ileo-psoas 2 serie 30 secondi

Non pensate ad avanzare senza prima aver mandato in retroversione il bacino. La retroversione vi permette un miglior allungamento in estensione di anca. Non è corretto sdraiarsi in avanti, manderebbe in anti-versione il bacino flettendo l'anca.

Prevenire la bandelletta ileotibiale. Allungamento ileopsoas 2 serie da 30 secondi

Per concludere

Questi esercizi costano 10 minuti, suggerisco di farli prima di una sessione di allenamento, questo permette di rendere efficace l'effetto inibitorio che ha lo stretching statico su i muscoli allungati.

Se lo scopo è prevenire la sindrome della bandelletta ileotibiale dobbiamo allenarci in condizioni ottimali, questo richiede un riscaldamento mirato. Ricordatevi che questi esercizi sono preventivi e non terapeutici, se il ginocchio fa male, fatevi vedere da un professionista che possa aiutarvi.

Buon allenamento a tutti

Maurizio Tripodi

Prof. Maurizio Tripodi

Laureato Magistrale Scienze Motorie | Professore Università Cattolica di Milano
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Il riscaldamento dell'atleta

29 Gennaio 2016 by Redazione

L’organizzazione di una seduta di allenamento o di gara si compone generalmente in 3 fasi principali:

  1. Fase di riscaldamento (preparazione alla parte fondamentale);
  2. Fase fondamentale o centrale (fase di allenamento vera e propria oppure gara);
  3. Fase conclusiva (defaticamento, rilassamento muscolare)

In questa serie di articoli tratteremo della prima fase, quella di riscaldamento e dei concetti che vanno tenuti presente per una sua buona progettazione

 

Definizione ed obiettivi del riscaldamento

Il riscaldamento costituisce la parte iniziale di ogni allenamento o competizione, ed ha l’obiettivo di preparare gli atleti dal punto di vista psicologico e fisiologico alla fase centrale della sessione di allenamento o alla gara.

Prima dell’allenamento l’organismo dell’atleta si trova regolato su un “rendimento normale”, il riscaldamento ha il compito di elevare la disponibilità dell’organismo al lavoro ed alla prestazione successivi.

Un riscaldamento eseguito bene:

  • prepara l’atleta dal punto di vista fisiologico;
  • prepara l’atleta del punto di vista tecnico;
  • aiuta a prevenire gli infortuni;
  • prepara l’atleta dal punto di vista psicologico;
  • prepara e sostiene alla prestazione successiva;

 

Caratteristiche di un buon riscaldamento

L’allenatore deve essere in grado di proporre un’ideale sequenza di riscaldamento che porti l’atleta, in maniera graduale e sistematica, ad essere pronto dal punto di vista psicofisico allo sforzo successivo.

Per meglio comprendere è utile dividere tale fase in 2 ulteriori sotto-fasi:

  • Riscaldamento generale, costituito da vari esercizi a carico naturale ed esercitazioni tendenti a preparare l’organismo in maniera globale, rappresenta il 70%-85% della durata dell’intero riscaldamento;[su_spacer]
  • Riscaldamento specifico, ha l’obiettivo di preparare in maniera specifica l’organismo allo sforzo successivo, attraverso esercitazioni simili o uguali a quelli che si andranno ad eseguire nella fase centrale dell’allenamento, con la variante di un’intensità ed un volume minori. La sua durata rappresenta il 30% ed il 15% del riscaldamento globale.

Nella “progettazione” del riscaldamento tenere presente i seguenti fattori:

  • Stato di allenamento ed età dell’atleta;[su_spacer]
  • Tipologia nervosa dell’atleta, atleti molto calmi e rilassati possono giovare di riscaldamenti maggiormente intensivi, i soggetti “nervosi” necessitano di un riscaldamento più blando e prolungato;[su_spacer]
  • Tipologia di sforzo che si ha la necessità di preparare: il riscaldamento, soprattutto nella sua “fase specifica” sarà molto diverso a seconda dello sforzo che dobbiamo svolgere successivamente; ad esempio un atleta che deve svolgere una seduta di corsa a ritmo del fondo lento necessiterà di un riscaldamento estremamente diverso rispetto ad un velocista che deve svolgere un allenamento di sprint a velocità quasi massimali;[su_spacer]
  • Durata dell’effetto; gli effetti fisiologici del riscaldamento sull’organismo durano tra i 20′ ed i 30′; in caso di interruzione o di posticipazione dello sforzo (capita soprattutto in competizione) “mantenersi riscaldati” passivamente ed in caso utilizzare un programma di riscaldamento ridotto;[su_spacer]
  • Appena dopo il termine della fase di riscaldamento l’organismo si trova in una fase di leggero affaticamento, andrebbe lasciato a riposo (circa 5′ – max 10′) prima dello sforzo successivo (molto importante in funzione di gare e di sforzi massimali dove si richiedono alte prestazioni); in gara utilizzare questo periodo di tempo per esercitazioni di preparazione mentale;[su_spacer]
  • Le condizioni atmosferiche; aumentare la durata del riscaldamento e la sua gradualità in caso di temperature rigide (in inverno); in estate, con temperature più elevate, la muscolatura raggiunge la condizione desiderata in un tempo minore.

 

Come svolgere il riscaldamento:

  • Iniziare con esercitazioni generali che interessano tutto il corpo, ad intensità scarsa e progressivamente crescente;[su_spacer]
  • Aggiungere esercitazioni tecniche speciali, di mobilità articolare attiva;[su_spacer]
  • Aumentare gradualmente l’intensità fino ad arrivare a sforzi simili a quelli della fase centrale (allenamento o gara);[su_spacer]
  • Attivare maggiormente i muscoli che saranno interessati allo sforzo successivo;[su_spacer]
  • Pianificare il programma di riscaldamento a seconda della struttura del movimento specifico successivo.

 

Effetti da ricercare nella fase di riscaldamento

[su_table]

Reazioni fisiologiche del riscaldamento (rispetto ad una situazione di mancato riscaldamento)
Aumento della temperatura (T°) muscolare
Minore resistenza viscosa del muscolo (miglior approvvigionamento di sostanze nutritizie e rimozione dei prodotti di scarto)
Aumento della rapidità di risposta agli stimoli nervosi
Miglioramento dell’efficienza cardiocircolatoria e respiratoria
Aumento dell’efficienza del metabolismo aerobico
Maggior scambio di O2 nei tessuti
Incremento dell’efficienza metabolica in tutto il corpo
Aumento della ventilazione polmonare
Miglioramento dell’irrorazione e dell’elasticità dei tessuti osseo e connettivo
Miglioramento della mobilità e dell’elasticità muscolari

[/su_table]

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[su_table]

Regolazioni motorie del riscaldamento (rispetto ad una situazione di mancato riscaldamento)
Incremento della velocità di contrazione muscolare
Aumento della forza di contrazione muscolare
Incremento della coordinazione
Aumento della capacità di reazione

[/su_table]

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[su_table]

Regolazioni psichiche del riscaldamento (rispetto ad una situazione di mancato riscaldamento)
Creazione disponibilità agonistica (tenere presente la tipologia nervosa); soprattutto in previsione della gara
Creazione stato ottimale di eccitazione nervosa
Concentrazione sul compito principale

[/su_table]

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Un buon riscaldamento diminuisce la probabilità di infortuni?

Un riscaldamento ben fatto può aiutare a ridurre (NON si potrà mai azzerare) la probabilità di infortuni, grazie al miglioramento dell’elasticità muscolare, dei tendini e dei legamenti, all’aumento della mobilità delle articolazioni ed all’aumento della capacità e della disponibilità a reagire.

 

L’importanza dell’amento della T° muscolare e della T° centrale

Il riscaldamento per avere efficacia deve aumentare la temperature (T°) del corpo, necessaria a sviluppare una “riserva energetica” (calore) che sarà necessaria allo sforzo successivo.

L’aumento di temperatura mediante il riscaldamento avviene su 2 livelli:

  • A livello centrale (T°c): secondo Joch e Uckert (2001) un aumento della T° di 2°C permette una miglior efficacia delle reazioni chimiche dell’organismo. Questo si ottiene mediante esercitazioni la cui intensità aumenta gradualmente (non con sforzi intensi e duraturi)[su_spacer]
  •  A livello muscolare (T°m): Masterovoï (autore russo) nel 1966 ha iniziato a parlare, oltre di aumento di T°c anche di temperatura muscolare, conseguenza dell’aumento della vascolarizzazione dei gruppi muscolari interessati; l’obiettivo è raggiungere un aumento della T°m di 3°C

La T°c e la T°m evolvono in maniera diversa:

secondo Bisbop (2003) l’evoluzione della T°m è relativamente rapida (dai 3′ ai 5′) e sembra essere questa a svolgere un ruolo fondamentale nella prestazione sportiva, quella della T°c è più graduale e aumenta quando la T°m la supera.

Secondo Mohr e coll. (2004) la T°m, generalmente, aumenta di circa 3°C, con un aumento da circa 36°C a 39,4°C  (T°m del quadricipite nei giocatori di football dopo il riscaldamento). Secondo Joch e Uckert (2001) uno sforzo progressivo di 20′ su cicloergometro può aumentare la T°m di 2°C

Come già accennato prima la T°m dipende dalla vascolarizzazione e quindi per far salire la T° bisogna portare ad un aumento della circolazione sanguigna nel muscolo. L’autore russo (Masterovoi) ha constatato che soltanto contrazioni muscolari di una certa ampiezza ed intensità possono far “assumere al muscolo il ruolo di pompa sanguigna”.
Masterovoi nel 1964, propone un protocollo di riscaldamento detto “riscaldamento russo”, che presenteremo nel dettaglio in un prossimo articolo, in risposta all’inefficace (secondo l’autore) riscaldamento classico, che prevede una prima fase di contrazioni muscolari localizzate (sia concentriche che eccentriche) mediante esercitazioni analitiche a bassa resistenza (20% – 50% 1RM) con l’obiettivo di aumentare la vascolarizzazione del muscolo (fino a 3,4°C)

Nelle sue trattazioni lo studioso russo mostra, anche per avvalorare il proprio protocollo, che certe pratiche di warm-up classiche in realtà non portano ad un efficace aumento della temperatura e in alcuni casi possono creare anche dei problemi (in questo articolo accenneremo soltanto, ne tratteremo in maniera più dettagliata in un articolo successivo):

  • La corsa lenta, generalmente proposta all’inizio di ogni attività, non permette un’ideale contrazione della muscolatura interessata maggiormente durante la competizione (es: quadricipite, tricipite e ischio-crurali nello sprint o nella corsa di resistenza) e quindi non crea un’ideale attivazione della circolazione locale; ovviamente la sensazione, dopo 10′-20′ (in base anche alle condizioni atmosferiche) è quella di un “generale riscaldamento” che è dato dall’aumento della T°c, meno importante per la prestazione (e che in ogni caso risulta aumentata anche al termine di un “riscaldamento russo”) ma porta ad un ridotto aumento della T°m (da 0,2° a 1,6° C); inoltre per raggiungere tali temperature (1,6°) si necessita di una corsa continua protratta per almeno 20′, poco sostenibile per atleti di potenza (sprinter, lanciatori, saltatori, etc.)[su_spacer]
  • I movimenti rapidi sono poco efficaci per una migliore vascolarizzazione; ad esempio la contrazione muscolare dello skip o in uno sprint, essendo molto breve e violenta non permette un efficace aumento della T°m; non iniziare quindi il riscaldamento con movimenti rapidi ed esplosivi (anche se questo è anche buonsenso) [su_spacer]
  • Lo stretching statico, gli allungamenti provocano nel muscolo delle tensioni isometriche elevate che causano un’interruzione dell’irrorazione sanguigna (non stavamo ricercando la vascolarizzazione?) ed è forse questo il motivo per il quale una seduta di stretching statico con posizioni isometriche della durata di 20″-30″ porta ad un effetto negativo sulle capacità di forza (vedi la nostra guida sullo stretching); ovviamente un’alternanza di contrazioni muscolari e di periodi di allungamento (meglio se dinamico) permetteranno un’ideale apporto di sangue ai muscoli.

 

Organizzazione e psicologia del riscaldamento 

In linea con altri autori siamo dell’idea dell’importanza del riscaldamento sia nell’allenamento che in competizione, è fondamentale quindi che l‘allenatore proponga delle sequenze di esercitazioni con un obiettivo funzionale e specifico di volta in volta. Come abbiamo già visto in questi due articoli, Intervista a Loren Seagrave e Relazione convegno Stefano Serranò, al riscaldamento va posta estrema attenzione, addirittura in alcuni paesi esteri il riscaldamento è seguito e fatto svolgere da un coach specializzato nel warm-up (in Italia invece la tendenza è quella di essere dei tuttologi..), che viene proposto sotto varie forme a seconda dell’impegno che verrà affrontato successivamente.

Detto ciò crediamo sia importante, anche attraverso il riscaldamento, responsabilizzare gradualmente l’atleta con l’obiettivo di renderlo autonomo (almeno in alcune situazioni).

Ovviamente con i più giovani e con i principianti il riscaldamento deve essere seguito e controllato attentamente dal coach, ma gradualmente, con l’aumentare dell’esperienza dell’atleta, possono essere previsti dei momenti di “autogestione” nel quale si chiede agli atleti di decidere autonomamente le esercitazioni da utilizzare.

Questo porta ad una maggiore responsabilizzazione degli atleti che imparano anche a conoscere e “sentire” il proprio corpo e a scegliere  le esercitazioni migliori per se stessi.

Inoltre questi momenti di autogestione possono diventare, nel tempo, molto utili per creare un clima più rilassato (la progettazione e l’imposizione di ogni aspetto può diventare nel tempo molto stressante) e mantenere la giusta serenità nel gruppo di allenamento.

E quando ci si trova di fronte ad atleti già con una certa esperienza, ad esempio quando ad un raduno si propone qualcosa agli atleti solitamente seguiti da altri tecnici o quando iniziamo a seguire un atleta che precedentemente è stato allenato da altri?
Anche in questo caso prevedere momenti di “autogestione” può essere molto utile, i quanto si dà la possibilità all’atleta di lavorare su determinati aspetti (vedi esercitazioni di riscaldamento e/o allungamento più accentuate su un distretto muscolare con finalità preventiva) ritenuti importanti dall’atleta stesso (ricordiamoci che è l’atleta, quando ha maturato una certa esperienza, a conoscere e a sentire veramente quello che succede nel proprio corpo e non noi allenatori) e dal suo tecnico.
Inoltre questi momenti permettono di non rompere completamente una “routine”, magari errata, ma consolidata in diversi anni di allenamento, ricordandosi che una routine di riscaldamento che un atleta d’elite ha utilizzato per anni è difficile da cambiare drasticamente ed improvvisamente; il motivo è soprattutto psicologico. Ha senso secondo voi guadagnare un 2% nella prestazione, ma perdere il 20% della motivazione?

In ogni caso, anche quando il riscaldamento o una parte di esso è lasciato gestire all’atleta, la presenza del coach è fondamentale, in primis per controllare la qualità dei movimenti, ma anche per rendersi conto di quali esercitazioni l’atleta ricerca costantemente (probabilmente ne sente il bisogno dal punto di vista fisico e/o psicologico), in modo da integrare eventuali protocolli, che verranno proposti successivamente, con alcune esercitazioni preferite dall’atleta stesso.

 

Riscaldamento pre-allenamento o riscaldamento pre-competizione

Uno dei fattori da tenere presente nella preparazione e programmazione di un buon riscaldamento è il fatto che preceda una sessione di allenamento oppure una gara.

Per quanto riguarda il warm-up pre-allenamento, tenendo presente tutti i fattori e le indicazioni già elencate in precedenza, l’intensità della sua porzione specifica non richiede di essere molto consistente ed inoltre può essere pensato introducendo già degli stimoli allenanti ed affaticanti (esercitazioni di rinforzo, andature tecniche, esercitazioni esplosive, etc..). Ovviamente, come abbiamo già detto, va tenuto presente l’obiettivo della fase centrale di allenamento:

  • Per preparare un allenamento esplosivo o comunque ad al alta intensità (es. seduta di velocità per sprinter), l’atleta ha la necessità di preparare l’organismo ed in particolare il sistema neuromuscolare a contrazioni e reazioni veloci e rapide con alti livelli di coordinazione;
  • L’allenamento di resistenza a bassa intensità invece non necessità di tali stimoli e di conseguenza l’intensità globale del riscaldamento sarà minore.

 

Nel riscaldamento pre-gara l’obiettivo principale è quello di preparare l’organismo alla prestazione. Ovviamente anche in questo caso il warm-up deve preparare l’atleta dal punto di vista psicofisico, ma se vogliamo essere sicuri di non intaccare la capacità prestativa bisogna imparare a “dosare” in maniera ottimale le esercitazioni proposte. Questo è ovviamente soggettivo all’atleta che ci si trova davanti e deve tenere presente ancora una volta delle condizioni climatiche e del tipo di sforzo che la competizione richiede.

Ogni atleta dovrebbe, imparando a conoscersi e grazie anche al supporto e all’esperienza del proprio allenatore, crearsi una propria sequenza di esercitazioni che in un tempo prestabilito portino il proprio fisico ad essere pronto alla competizione (vedi “Organizzazione e psicologia del riscaldamento”).

Prima di una gara dobbiamo tenere presente:

  • stato nervoso dell’atleta (atleti molto calmi possono iniziare dopo il riscaldamento, quelli nervosi necessitano di riscaldamenti un po’ più lunghi in modo da avvicinarsi alla gara in modo metodico e maggiormente rilassato
  • eventuale inaccessibilità di piste e pedane e lontananza delle zone di riscaldamento da queste;
  • eventuale mancanza di spazio per un ottimale riscaldamento libero ed attivo;
  • competizioni con molte gare e batterie (tempi lunghi tra le partenze)
  • ritardi da parte degli organizzatori;
  • obbligo a rimanere fermi in camera d’appello per tempi molto lunghi, soprattutto nelle gare internazionali (studiare strategie ed esercitazioni passive e che comunque richiedono poco spazio per mantenere lo stato di riscaldamento raggiunti precedentemente);
  • evitare riscaldamenti eccessivamente prolungati che rischiano di consumare eccessivamente le energie psicofisiche dell’atleta (max 40′);
  • terminare il riscaldamento 5’/10′ prima dell’inizio della competizione (inserire ogni 1’/2′ esercizi che mantengano attivi i muscoli) e concentrarsi sull’aspetto mentale.

Se gli atleti devono affrontare più di una competizione (prove multiple, batterie e finali, oppure due tempi negli sport di squadra) il riscaldamento successivo alla prima competizione può essere accorciato, soprattutto nella fase generale di esso: ridurre la fase generale del riscaldamento passando più velocemente alle esercitazioni specifiche. Questo è valido se la fase di inattività precedente al secondo riscaldamento avviene in ambiente caldo e umido.

 

Perché effettuare un 2° riscaldamento ridotto in competizioni o allenamenti ravvicinati?

Questo è un consiglio molto diffuso, probabilmente più per “esperienza personale” dei coach che avendo provato sulla loro pelle sanno che se non passa molto tempo tra una competizione e l’altra (o un allenamento e l’altro) non è necessario prestare la stessa quantità di tempo per arrivare pronti allo sforzo successivo.

Personalmente con sono a conoscenza di ricerche scientifiche che avvalorano questa tesi, ma in letteratura ho trovato diverse ipotesi autorevoli e la più interessante è quella di Vern Gambetta che nel suo libro afferma:

anche se non dispongo di alcun dato scientifico, dopo il riscaldamento iniziale (quello della prima seduta), ho osservato quello che chiamo “effetto intasamento metabolico”. Quando c’è un riscaldamento iniziale, l’effetto metabolico sembra protrarsi per 2-3 ore, a volte anche più a lungo, in un ambiente caldo e umido (ovviamente, ndr). La temperatura interna dei muscoli e l’escursione di movimento non diminuiscono rapidamente con la cessazione dell’esercizio, specialmente se viene eseguito un defaticamento completo.
Se si prevedono più sedute di allenamento o competizioni in un giorno, non c’è bisogno di fare un secondo e un terzo riscaldamento in modo estensivo. Infatti ogni riscaldamento successivo dovrebbe essere più breve e più specifico rispetto alle necessità di ogni atleta. Ciò è importante in quanto permette di risparmiare energia e ottimizzare la prestazione.

Quindi ogni riscaldamento successivo deve essere meno lungo (nella sua parte generale) di quello precedente, a meno che il periodo che passa tra il defaticamento precedente e l’inizio del 2° riscaldamento non sia superiore alle 3 ore. Come tiene a precisare sempre Gambetta:

La parte più difficile nei riscaldamenti multipli è il lavoro sull’attivazione nervosa. In questo caso la difficoltà sta nel non eccedere tanto da indebolire il sistema nervoso.

 

Conclusioni

L’intenzione di questo articolo, è quella di presentare quali sono i concetti fondamentali e i fondamenti scientifici che vanno tenuti presente nella costruzione di una fase di riscaldamento adeguata alle esigenze dell’atleta e della situazione.

Ovviamente la specificità di ogni situazione non permette di dire “questo va bene sempre” e “questo non va ma i bene”.

Nei giovani e nei principianti, ad esempio, un riscaldamento ben fatto potrebbe rappresentare già un ottimo stimolo allenante (nelle prime fasi di adattamento) e di questo bisogna essere consapevoli per non sovraccaricare l’organismo.

Ogni tecnico, insieme ai propri atleti dovrebbe, grazie anche alle nozioni sopra descritte, essere in grado di adattare il riscaldamento alle variabili dell’allenamento.

A nostro avviso NON esiste un protocollo ideale (sopra abbiamo accennato a quello russo), ma vanno trovate le giuste combinazioni in base alle proprie esigenze.

Restiamo convinti che gli studi e le ricerche scientifiche senza una reale applicazione sul campo siano fondamentalmente inutili: è la pratica che può avvalorarle attraverso i risultati e il miglioramento della qualità degli allenamenti

Il consiglio è quello di testare in allenamento vari protocolli e, ascoltando anche i pareri e le sensazioni dei propri atleti, valutare pro e contro di ognuno di essi.

Con questo spirito nelle prossime pubblicazioni proporremo l’analisi di alcune metodologie di warm-up!!!

 

A cura di Andrea Dell’Angelo

 

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Bibliografia:

Jürgen Weineck, L’allenamento ottimale, Calzetti&Mariucci, 2007.

Gilles Cometti, L’allenamento della velocità, Società Stampa Sportiva Roma, 2002.

Mladen Jovanovic, Stability~Variability in Warm-up, http://complementarytraining.net/stabilityvariability-in-warm-up/, 2010

Gary Winkler, Il ruolo del riscaldamento: preparando l’atleta per l’allenamento e la competizione, Traduzione di Luciano Bagoli da Track and Field Coaching Manual (USA 1989) http://www.fidal-lombardia.it/pagine/tecnico/settori/riscaldamento%20dell’atleta.pdf

Vern Gambett, Lo sviluppo atletico. L’arte e la scienza dell’allenamento funzionale nello sport, Calzetti&Mariucci Editori, 2013

 

 

 

 

 

 

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Stretching: cosa dicono le ricerche

16 Luglio 2015 by Redazione

STRETCHING: COSA DICONO LE RICERCHE

Sulla base delle conoscenze attuali, in base alle numerose ricerche che esistono sullo stretching e sulle sue diverse applicazioni, possiamo affermare alcune considerazioni importanti riguardanti questa pratica. Cerchiamo quindi di fare chiarezza su questa pratica diffusa e forse fin troppo abusata da parte di alcuni atleti e allenatori.

 

Stretching e riscaldamento

Lo stretching non è il miglior mezzo sul quale basare la fase di riscaldamento pre-gara e/o pre-allenamento. Questo non significa assolutamente che non può trovare una posizione in quest’ambito, ma che al contrario debba essere integrato in un piano di riscaldamento basato essenzialmente su esercitazioni di tipo dinamico, che si rivelano senz’altro più adatte ad ottenere un idoneo innalzamento della temperatura muscolare sino al raggiungimento dei suoi livelli ideali.

La temperatura ideale alla quale il muscolo ottimizza le proprie caratteristiche visco-elastiche, è all’incirca di 39° C, a questa temperatura diminuisce infatti la viscosità dei tessuti, migliora l’elasticità dei tendini, si aumenta la velocità di conduzione nervosa e si modifica positivamente l’attività enzimatica, inoltre l’innalzamento della temperatura muscolare costituisce un’efficace misura preventiva nei confronti degli infortuni riducendo i rischi di stiramento o strappo muscolare.

Lo stretching è largamente utilizzato nell’ambito del riscaldamento tuttavia, secondo alcuni Autori (Alter, 1996; Wiemann e klee, 2000) la sua possibile efficacia nel provocare un innalzamento della temperatura del muscolo, sarebbe molto discutibile, tanto che alcuni studi dimostrerebbero addirittura un suo effetto negativo in questo senso. In effetti, occorre ricordare che il tipo d’azione muscolare che ritroviamo nel corso dello stretching è praticamente sovrapponibile a ciò che avviene in una contrazione eccentrica.

Dal momento che nel corso di una contrazione di tipo eccentrico, la vascolarizzazione muscolare viene interrotta ed il lavoro svolto diviene in tal modo di tipo anaerobico, determinando un aumento dell’acidosi, oltre ad una marcata anossia cellulare, è facilmente comprensibile come lo stretching non possa essere considerato come il mezzo d’elezione nell’ambito del riscaldamento. Utilizzare lo stretching come unico mezzo esclusivo sul quale basare il riscaldamento pre-gara e/o pre-allenamento, sembrerebbe quindi sicuramente insufficiente e scorretto. Tuttavia, integrare razionalmente lo stretching in uno schema di riscaldamento basato soprattutto su altri tipi d’esercitazione, maggiormente efficaci nel far aumentare la temperatura interna del muscolo, come un’idonea alternanza di contrazioni e rilassamenti, è sicuramente la scelta più corretta. Come ricorda Shrier (1999), non dobbiamo mai dimenticarci delle peculiarità della persona: molti atleti necessitano di un solo esercizio di allungamento per muscolo, mentre altri richiedono più esercizi e più tempo da dedicare allo stretching.

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Stretching e prevenzione dei danni muscolari

Non è razionale pensare che sia sufficiente una sola pratica dello stretching per poter prevenire in forma sistematica gli incidenti di natura muscolare. Data la multifattorialità degli infortuni, non è giustificato poter pensare ad una completa inutilità dello stretching in questo campo. La scelta più obiettiva e corretta sembrerebbe considerare lo stretching come uno dei molteplici mezzi di prevenzione da adottare nell’ambito di una strategia preventiva di tipo integrato e sinergico.

Una ricerca di Simic et Al. Del 2013 afferma che i risultati dimostrano chiaramente che lo Stretching Statico prima dell’esercizio ha un effetto negativo sulla forza muscolare massima e sulle prestazioni muscolari, mentre i corrispondenti effetti acuti sulla potenza muscolare rimangono ancora poco chiari. Questi risultati sono universali, indipendentemente dal soggetto di età, genere, o lo stato di formazione. Il meccanismo maggiormente correlato al possibile danneggiamento della fibra muscolare, risulterebbe essere la contrazione di tipo eccentrico. La ragione della maggior incidenza traumatica a livello muscolare, riscontrabile durante una situazione di contrazione eccentrica, è con ogni probabilità imputabile alla maggior produzione di forza registrabile nel corso di quest’ultima, rispetto a quanto non avvenga nella modalità di attivazione di tipo concentrico od isometrico.

Infatti durante una contrazione eccentrica, la forza espressa dal distretto muscolare risulta essere di ben tre volte maggiore di quella espressa, alla stessa velocità, durante una contrazione concentrica. Inoltre, durante una contrazione eccentrica, risulta maggiore anche la forza prodotta dagli elementi passivi del tessuto connettivo del muscolo sottoposto ad allungamento. Soprattutto in riferimento a questo dato, occorre sottolineare come anche il fenomeno puramente meccanico dell’elongazione, possa giocare un ruolo importante nell’insorgenza dell’evento traumatico. Durante la contrazione eccentrica il muscolo è in effetti sottoposto ad un fenomeno di “overstretching” che, in quanto tale, può determinare l’insorgenza di lesioni a livello dell’inserzione tendinea, della giunzione muscolo-tendinea, oppure a livello di una zona muscolare resa maggiormente fragile da un deficit di vascolarizzazione. E’ interessante notare come siano i muscoli bi-articolari quelli maggiormente esposti ad insulti traumatici, proprio per il fatto di dover controllare, attraverso la contrazione eccentrica, il range articolare di due o più articolazioni. Anche la diversa tipologia delle fibre muscolari presenta una differente incidenza di evento traumatico. Le fibre di tipo FT (fibre a contrazione rapida che intervengono nelle azioni muscolari rapide ed intense) sono infatti maggiormente esposte a danni strutturali rispetto alle ST (fibre muscolari a contrazione lenta, reclutate in azioni muscolari di scarsa entità ma di lunga durata) probabilmente a causa della loro maggior capacità contrattile, che si traduce in un’accresciuta produzione di forza, e di velocità di contrazione, rispetto alle fibre di tipo ST.

Inoltre i muscoli che presentano un’alta percentuale di FT, sono generalmente più superficiali e normalmente interessano due o più articolazioni, fattori entrambi predisponenti al danno strutturale. Inoltre è interessante notare come l’evento traumatico sia prevalentemente localizzato a livello della giunzione muscolo-tendinea, a testimonianza del fatto che in questa zona, si verifichi il maggior stress meccanico.

Per tutta questa serie di motivi lo stretching è stato sempre considerato come la miglior forma di prevenzione nei confronti dei danni muscolari. Tuttavia recentemente numerosi Autori, a seguito di protocolli di studio specifici, non hanno rilevato alcun beneficio, derivante da una pratica assidua e regolare dello stretching, nei riguardi della prevenzione dei danni all’UMT. Una possibile spiegazione di questa mancanza di correlazione tra capacità d’elongazione del muscolo e diminuzione degli incidenti muscolari, potrebbe risiedere nel fatto che in effetti lo stretching provoca una sorta di effetto antalgico nei confronti dell’allungamento stesso.

Shrier e Pope (2000), hanno mostrato che lo stretching effettuato prima dell’esercizio non ha alcun effetto nella prevenzione dei traumi, sia in acuto che in cronico. Altre ricerche (Hartig, 1999, Hilyer, 1990) non sono arrivate a stabilire un livello minimo di stretching, in termini di tempo al giorno, affinchè possa produrre risultati significativi. La pratica dello stretching indurrebbe quindi una diminuzione della sensazione dolorosa indotta dall’allungamento, data da un aumento della soglia dei nocirecettori, permettendo in tal modo all’atleta di sopportare allungamenti muscolari di maggiore entità, situazione che potrebbe anche paradossalmente aumentare il rischio di traumatismi a livello muscolare.

La considerazione finale sull’incidenza dello stretching sul rischio d’incidenti a livello muscolo-tendineo, è che comunque l’eziologia di tali eventi traumatici sia talmente multifattoriale da rendere improbabile l’ipotesi che in questo campo la pratica dello stretching possa costituire una sorta di rimedio universale, ma è molto più plausibile ed obiettivo considerare lo stretching come uno dei mezzi utilizzabili nell’ambito di un piano rivolto alla prevenzione degli incidenti muscolari.

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Stretching e prestazione

Sono molti gli studi ritrovabili in bibliografia che documentano (Wiemann e Klee, 2000; Fowles, 2000; Kekonen, 2001) in seguito ad una precedente seduta di stretching, una diminuzione della prestazione di sprint, una perdita della capacità di forza massimale e di resistenza alla forza, oppure di capacità di salto e quindi della possibilità da parte dell’UMT (unità muscolo tendinea) di accumulare energia elastica nel corso della fase eccentrica del movimento e di restituirla, sotto forma di lavoro meccanico, durante la fase concentrica dello stesso.

Una recente ricerca di Kay, A. D., and A. J. Blazevich del 2012, ha affermato che lo stretching statico per un totale di 45 sec può essere utilizzato come routine senza il rischio di una diminuzione significativa nella performance delle attività forza o di velocità. Per tempi di allungamento più lunghi(ad esempio, 60 s) ci sono maggiori probabilità di causare una piccola o moderata riduzione delle prestazioni. Questa perdita della capacità prestativa in seguito ad un seduta di stretching, trova sostanzialmente tre tipi di spiegazione.

In primo luogo, occorre sempre considerare il fatto che l’allungamento è, da un punto di vista biomeccanico, assimilabile ad una contrazione di tipo eccentrico, la cui intensità può raggiungere livelli di tipo massimale. Per questo motivo, facendo precedere alla prestazione, una seduta di stretching particolarmente intensa, si corre sia il rischio di produrre dei danni alla struttura muscolare. Un secondo fattore che potrebbe spiegare il fenomeno, è costituito dal fatto che un’eccessiva sollecitazione in allungamento di alcuni gruppi muscolari a discapito di altri, potrebbe costituire un fattore di perturbazione della coordinazione sia tra gruppi muscolari sinergici, che tra agonisti ed antagonisti. Un ultimofattore è costituito dal fatto che il tendine, nel corso di un allungamento di una certa intensità e durata, attraversa una fase di riorganizzazione delle proprie fibre di collagene che vengono nuovamente orientate meno obliquamente di quanto non fossero nella precedente fase di riposo.

Questo fenomeno va sotto il nome di “creeping” e comporta una diminuzione delle capacità del tendine, nel corso di un ciclo stiramento-accorciamento, di poter accumulare e restituire energia elastica. Dal momento che il tendine è il maggior interprete del fenomeno di risposta elastica, quest’ultimo fattore potrebbe assumere un ruolo determinante nella diminuzione delle capacità di salto registrabile in seguito ad una precedente intensa seduta di stretching.

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Stretching e prevenzione dei DOMS*: Delayed Onset Muscle Soreness

L’utilizzo dello stretching nella prevenzione del fenomeno del delayed onset muscle soreness apparirebbe ingiustificato e sostanzialmente inutile.

Il fenomeno del “delayed onset muscle soreness”, successivo ad un allenamento di tipo eccentrico ha un origine metabolica e meccanica ben precisa, è quindi molto probabile che la pratica dello stretching non abbia un’influenza di tipo positivo sul fenomeno in questione. Alcuni lavori testimoniano di come neppure una seduta di stretching effettuata prima di una seduta d’allenamento eccentrico, oppure durante, o dopo la stessa, sia in grado di diminuire la sensazione dolorosa percepita dagli atleti nell’ambito delle 24-48 ore susseguenti alla sessione di lavoro. Freiwald, 1999; Schober, 1990; affermano che lo stretching statico non rappresenta il miglior modo per facilitare il drenaggio del sangue, anzi, la compressione dei capillari interrompe la vascolarizzazione.

*DOMS (Delayed Onset Muscle Soreness): indolenzimento muscolare ad insorgenza ritardata, associato a un aumento dello sforzo fisico (sia come intensità che come volumi), è una normale risposta fisiologica a sforzi maggiori, o lo svolgimento di attività fisiche a cui non si è abituati (porta ad adattamento ad esso). Il dolore e il disagio associato ai DOMS solitamente raggiunge il picco tra le 24 e le 48 ore a seguito dell’esercizio fisico, e si estingue entro 96 ore.
Dai non addetti ai lavori è spesso ed erroneamente associato ad accumulo di acido lattico nei muscoli.

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Concludendo, come dobbiamo comportarci?

Abbiamo toccato diversi punti importanti in questo articolo che possono servire a tutti gli allenatori e atleti che si cimentano tutti i giorni nella pratica dello stretching, abbiamo chiarito alcuni dubbi attraverso spiegazioni dettagliate fornite da numerosi studiosi nel campo della ricerca dello sport.

Vediamo quindi alcuni messaggi importanti da portare con noi mentre andiamo al campo di allenamento, in pista o durante ogni nostra seduta di training:

  1. Non basiamo il riscaldamento solo esclusivamente sullo stretching ma integriamolo con altre esercitazioni dinamiche e sport specifiche.
  2. Lo stretching non previene gli infortuni ma è uno dei tanti mezzi che aiuta a prevenirli. La sola pratica dello stretching non è sufficiente e va integrata con altre pratiche poiché le cause degli infortuni sono molteplici.
  3. Lo stretching svolto prima di una prestazione di forza potrebbe creare una diminuzione di essa.
  4. Lo stretching non rappresenta il miglior modo per prevenire i DOMS dato che non facilita il drenaggio sanguigno poiché la compressione dei capillari interrompe la vascolarizzazione.

Maurizio Tripodi

un ringraziamento a Matteo Ferrari che mi ha aiutato nella stesura di questi articoli sullo stretching

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Prevenzione degli infortuni

Lo stretching: mezzi e metodi

Lo stretching: video pratico

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Lo stretching: quello che dobbiamo sapere

18 Giugno 2015 by Redazione

Il termine “stretching” proviene dall’inglese to stretch, che significa allungamento, stiramento, e rappresenta la metodica di allenamento che viene utilizzata per migliorare la flessibilità muscolare attraverso l’esecuzione di esercizi, semplici o complessi, di stiramento. Lo stretching è arrivato in Europa e in Italia attraverso la ginnastica aerobica giunte come sempre da oltreoceano.

Nell’ambito della preparazione fisica, la comparsa degli esercizi di stretching ha rappresentato un passo in avanti in quanto gli atleti hanno imparato a prestare più attenzione alle differenti sollecitazioni dei diversi gruppi muscolari e alla loro mobilità articolare. Per tanti anni la pratica dello stretching è stata consigliata e se n’è fatto un abuso e un uso indiscriminato, poiché si riteneva che portasse solo benefici.

Ma in realtà, come tutti i mezzi di allenamento, ha diverse sfaccettature e non può essere usato in qualsiasi momento: bisogna tener conto ad esempio dell’obiettivo che si vuole raggiungere, del momento in cui viene proposto, del background motorio dell’atleta e dello sport specifico.

Per prima cosa cerchiamo di chiarire i concetti di mobilità articolare e flessibilità muscolo-articolare.

La mobilità articolare è la capacità di eseguire, nel rispetto dei limiti fisiologici imposti dalle articolazioni, dai muscoli e dalle strutture tendinee, tutti i movimenti con la massima ampiezza e naturalezza possibile, sia volontariamente che in presenza di forze esterne. La mobilità quindi non ha un significato generico, ma è specifica per una particolare articolazione o una serie di articolazioni, inoltre è specifica dell’azione svolta con l’articolazione stessa.

È considerata una capacità complessa in quanto dipende sia da fattori neurologici sia da fattori anatomici, per questo motivo non è compresa tra le capacità coordinative, nè tanto meno tra quelle condizionali, ma ha un ruolo a se stante.

Si valuta misurando il ROM cioè il “range of motion” delle varie articolazioni.

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La mobilità articolare dipende:

  • Dalla struttura dell’articolazione.
  • Dalle capacità elastiche di muscoli e tendini.

Oltre alle caratteristiche morfologiche sopra indicate, ci sono alcuni fattori che influenzano positivamente o negativamente la mobilità articolare; essi sono:

  • La temperatura ambientale.
  • Il grado di riscaldamento motorio raggiunto.
  • Un eccessivo lavoro di sviluppo muscolare.
  • L’età e il sesso.
  • Stati d’ansia e di stress.
  • Il livello di affaticamento del muscolo (limita l’azione dei muscoli agonisti e antagonisti).

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La mobilità articolare si distingue in:

Mobilità articolare attiva: la massima escursione di movimento di un’articolazione che un atleta può raggiungere contrendo i muscoli agonisti e allo stesso tempo, rilassando i muscoli antagonisti.

Mobilità articolare passiva: corrisponde alla massima escursione di movimento che un atleta può raggiungere in presenza di forze esterne (compagno o attrezzi) ed è basata sulla capacità di rilassamento e allungamento dei muscoli antagonisti.

Il tessuto connettivo è estensibile ma, se non viene regolarmente sollecitato con l’esercizio fisico, in breve tempo perde queste caratteristiche essenziali. La capacità dei muscoli di allungarsi durante il movimento consentito da un articolazione può essere definita come flessibilità muscolare e rappresenta una qualità che può essere migliorata con l’allenamento.

A sua volta la flessibilità muscolare può essere limitata alla capsula articolare, dall’attività della componente contrattile del muscolo, dal tessuto connettivo del muscolo stesso e dai suoi tendini, oltre che dalla cute. Unendo i due concetti possiamo quindi parlare di flessibilità muscolo – articolare.

 

[su_heading size=”20″]LE DIVERSE TECNICHE DI STRETCHING[/su_heading]

Lo stretching o allungamento è un importante anello di congiunzione tra la vita sedentaria e la vita attiva, mantiene l’elasticità dei muscoli, prepara al movimento, alla attività sportiva.
Eseguire l’allungamento prima e dopo l’attività fisica conserverà la vostra flessibilità e sarà utile a prevenire i traumi non dovete forzare i vostri limiti o ricercare il record giornaliero, è una tecnica che si riferisce alle vostre capacità individuali, alla vostra struttura muscolare, alla vostra flessibilità ed ai vari livelli di tensione.
L’obiettivo è quello di ridurre la tensione muscolare, favorendo la libertà di movimento e non quello di raggiungere la massima flessibilità che porta al sovra-stiramento e all’infortunio.
La respirazione dovrà essere lenta, ritmica e sotto controllo: espirate quando iniziate il movimento, mantenete la posizione respirando lentamente senza trattenere il respiro.

Gli esercizi di stretching sono praticati attraverso innumerevoli modalità, soprattutto dettate dal grado d’allenamento dell’atleta a cui vengono proposti, nonché dalla specificità della disciplina sportiva praticata.
E’ comunque possibile classificare lo stretching diverse categorie tecniche che prevedono modalità esecutive diverse tra loro:

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Stretching statico

Le tecniche di stretching statico, talvolta erroneamente confuse con quelle di stretching passivo, sono basate sul raggiungimento ed il mantenimento per un certo lasso di tempo, della massima posizione di allungamento possibile da parte dell’atleta.

Il metodo dello stretching statico prevede che si assuma lentamente una posizione di allungamento che dovrà essere successivamente mantenuta da un minimo di 10 ad un massimo di 60 secondi. Questo tipo di tecnica presenta alcuni vantaggi che sinteticamente possono essere elencati nei seguenti punti:

  • È sicura, di facile apprendimento e di semplice esecuzione.
  • Richiede un dispendio energetico molto contenuto.
  • Permette di superare la problematica inerente il riflesso da stiramento (recettori della tensione che proteggono il muscolo dal suo sviluppo eccessivo).
  • Se praticata in modo sufficientemente intenso, può indurre un rilassamento muscolare riflesso indotto dall’azione degli OTG.
  • Permette dei cambiamenti strutturali, in termini d’elongazione, di tipo semi-permanente.

Il principale svantaggio che lo stretching statico presenta, è la sua mancanza di specificità. In effetti la maggior parte delle discipline sportive contempla dei movimenti dinamici di tipo balistico, durante i quali l’UMT (unità muscolo tendinea) deve sopportare delle elongazioni violente e repentine.

stretching_statico_ gastrocnemio_il_coach

Stretching statico gastrocnemio

Lo stretching statico, pertanto, si presenta come scarsamente specifico nei confronti di tali situazioni.

Inoltre, occorre ricordare come il muscolo possegga due tipi recettori: i primi misurano sia la velocità, che la lunghezza dell’elongazione, mentre i secondi sono sensibili solamente ai cambiamenti di lunghezza, per questa ragione gli esercizi d’allungamento statico andrebbero accompagnati con quelli basati sull’allungamento dinamico.

Un’ulteriore problematica legata all’utilizzo dello stretching statico, è costituita dal suo possibile effetto negativo sulla produzione di forza muscolare, dimostrato già da diverse ricerche scientifiche. Le capacità contrattili del muscolo sottoposto ad un eccessivo carico d’allungamento, verrebbero infatti diminuite a causa di un cambiamento della capacità da parte del muscolo di assorbire e dissipare lo shock derivante da un carico esterno imposto, oltre che della sua capacità di stiffness ovvero la rigidità con la quale il sistema muscolo-tendineo reagisce al carico imposto.

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Stretching passivo

Nello stretching passivo, l’atleta è completamente rilassato e non partecipa attivamente al raggiungimento dei diversi gradi del ROM (range of motion), che invece sono raggiunti grazie all’applicazione di forze esterne create manualmente, come nel caso d’aiuto da parte di un terapista o di un compagno, oppure meccanicamente, grazie ad una strumentazione specifica. Questo tipo di tecnica è normalmente utilizzata in ambito riabilitativo, soprattutto nel caso in cui l’estensibilità del muscolo sottoposto ad allungamento sia limitata dall’azione degli antagonisti e dal tessuto connettivo. Tra i vantaggi che l’allungamento passivo presenta possiamo elencare:

  • La sua efficacia nel caso in cui i muscoli preposti all’allungamento attivo, ossia la muscolatura agonista, risultino troppo deboli per poter svolgere detto compito.
  • Si dimostra particolarmente efficace, quando altri tentativi, effettuati con differenti tecniche d’allungamento, hanno fallito nel tentativo di ridurre le tensioni muscolari presenti.
  • Permette un allungamento che può andare al di là del ROM attivo.
  • Aumento della tolleranza del dolore, con una diminuzione dell’input nervoso nei motoneuroni e una diminuzione del tono muscolare con una maggiore tolleranza allo stiramento.

L’aumento della emobilità articolare dopo un allenamento di allungamento intenso e durata adeguata sembra che debba essere attribuito all’interazione di meccanismi di adattamento diversi. Tra i possibili rischi dell’allungamento passivo, possiamo annoverare il rischio di lesione che può presentarsi nel caso in cui la differenza tra il range di flessibilità attiva e quello di flessibilità passiva sia considerevole. Inoltre, al contrario di quanto accade con i metodi attivi, non si rafforzano contemporaneamente gli antagonisti. Dal momento che il livello di flessibilità passiva non risulta correlato con il livello di attività sportiva, quest’ultima deve necessariamente essere supportata da un parallelo programma di lavoro costituito da esercizi di flessibilità attiva.

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Stretching attivo-isolato

Lo stretching attivo-isolato è un metodo di allungamento muscolare e rilascio fasciale, è una tecnica che fornisce un facile ed efficace stiramento dei principali gruppi muscolari, ma ancora più importante, fornisce il ripristino funzionale e fisiologico di piani fasciali superficiali e profondi. Questa forma di stretching riprogramma il cervello e il corpo di ricordare nuove forme di movimento, in modo da vedere dei miglioramenti rapidi in flessibilità.

L’esecuzione di un tratto isolato del corpo per non più di due secondi permette ai muscoli di allungarsi in modo ottimale, senza far scattare il riflesso di stiramento di protezione e la conseguente reciproca contrazione muscolare antagonista. Questa tecnica fornisce grandi benefici e può essere compiuta senza un’eccessiva tensione o un conseguente trauma.

Si possono eseguire 1 o 2 ripetizioni, mantenendo la posizione per 1 o 2 secondi partendo da 5 a 10 ripetizioni per tipo.

È importante ricordare che, durante l’esecuzione di un’esercitazione di stretching attivo, la tensione della muscolatura agonista contribuisce al rilassamento della muscolatura antagonista (ossia quella sottoposta ad allungamento), grazie al fenomeno dell’inibizione reciproca, che sta alla base di questa tecnica.

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Stretching dinamico
Lo stretching dinamico prevede movimenti la cui escursione articolare aumenta progressivamente, così come la velocità d’esecuzione. Lo stretching dinamico serve a riscaldare un muscolo o un gruppo di muscoli e a mobilizzare le articolazioni su cui questi passano, inoltre migliora la flessibilità dinamica, motivo per cui è particolarmente adatto ad essere inserito nella fase di riscaldamento di un allenamento.

Durante questo tipo di stretching, il movimento non prevede un’esecuzione “rimbalzante”, e soprattutto nella fase finale dell’esercizio, la velocità esecutiva globale è molto più controllata ed il movimento è eseguito in modo controllato sino ai limiti del proprio ROM.
Tuttavia bisogna sottolineare, che per ottenere il massimo vantaggio da un programma rivolto alla flessibilità, occorre che gli esercizi proposti siano velocità-specifici, è necessario quindi che la velocità d’allungamento adottata nel programma di stretching sia la più simile possibile a quella che si riscontra durante l’esecuzione dei gesti tecnici specifici nell’ambito della disciplina praticata.

Ecco il video per mostrare dal punto di vista pratico le principali tecniche.

Nel prossimo articolo discuteremo di quando è meglio utilizzare una tecnica e quando un’altra. Alla prossima ….

 

Articolo a cura di Maurizio Tripodi e Matteo Ferrari

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Gli altri articoli di Maurizio

Prevenzione degli infortuni

 

 

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