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Intervista alla Baronessa Sue Campbell

1 Marzo 2020 by Redazione

Baronessa Sue Campbell

‘As winning margins are getting smaller, we need to get smarter’

"Man mano che i margini di vincita si riducono, dobbiamo diventare più SMART"

Questa è la terza intervista agli speaker che interverranno il 28-29 Marzo all'IFAC 2020.

Abbiamo fatto le 5 domande, che ormai conoscerete bene, alla Baronessa Sue Campbell, Head's of Woman Football at the FA e ampiamente considerata tra le persone con maggior influenza nello sport Inglese.

Lei è una personalità di grande successo nel mondo dello sport. Quali sono, secondo lei, i fattori chiave che portano a grandi risultati?

Chiarezza di intenti, determinazione, lavoro di squadra, flessibilità e resilienza

Come si fa ad essere sempre all'avanguardia in un costante processo di miglioramento personale?

Essere sempre aperti all'apprendimento e rimanere curiosi

Che ruolo ha la tecnologia nel suo lavoro e nella sua vita?

Non sono particolarmente brava con la tecnologia, ma mi permette di comunicare, connettermi ed esplorare

Che ruolo hanno le competenze delle persone nel suo lavoro e nella sua vita?

Loro sono al centro di tutto quello che faccio - le persone sono la tua più grande risorsa

Qual è il risultato che intendete ottenere per i coach attraverso il vostro contributo all'IFAC 2020?

Aiutarli a riflettere e a migliorare

 

Traduzione a cura di Andrea Uberti e Matteo Rozzarin

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Strength and conditionig nel Rugby: intervista a Tom Farrow

28 Febbraio 2020 by Redazione

Tom Farrow

"[tweetthis]Quando si lavora con grandi atleti, il successo spesso dipende più da ciò che si lascia accadere che da ciò che si realizza."![/tweetthis]

All'International Festival of Athletics Coaching, dal 28 al 29 marzo 2020, parlerà anche Tom Farrow, attualmente Head of Physical Performance per England 7s Men e Co-Director di Areté Performance.

Gli abbiamo rivolto alcune domande per comprendere la sua filosiofia di allenamento e i suoi obiettivi per l'IFAC 2020.

Lei è una personalità di grande successo nel mondo dello sport. Quali sono, secondo lei, i fattori chiave che portano a grandi risultati?

  • Passione per la vostra disciplina.
  • Passione per le persone con cui si lavora a fianco.
  • Curiosità
  • La spinta a vivere una vita appagata.
  • La capacità di utilizzare bene le risorse economiche a disposizione! (Soprattutto all’inizio)

Come si fa ad essere sempre all'avanguardia in un costante processo di miglioramento personale?

Alcuni dei miei insegnamenti più preziosi sono venuti da conversazioni con altri allenatori.

Condividere idee con loro, condividere esperienze e discutere di tutto ciò che riguarda lo sport, lo sviluppo personale e la competenza.

Mi piace anche molto leggere di tutto, sia all'interno della mia disciplina, sia cose più distanti per argomento. La maggior parte della mia filosofia personale di coaching è nata da letture al di fuori dello sport, anche se spesso la trovo convalidata da conversazioni con allenatori esperti e dalla mia esperienza nello sport.

Alcune aree che hanno avuto una grande influenza sul mio punto di vista sono: le filosofie orientali, la psicologia umanistica, l’interesse per lo sviluppo delle strutture narrative e anche una serie di cabarettisti.

Che ruolo ha la tecnologia nel suo lavoro e nella sua vita?

Nello sport non c'è e non può esserci certezza; tutte le nostre decisioni sono in qualche modo un atto di fede.

La tecnologia ha contribuito ad accorciare tuttavia il divario di quanto devono essere grandi questi atti di fede.

Varie tecnologie - sistemi di monitoraggio GPS, monitoraggio HRV, pedane di forza, fotocellule e altre apparecchiature per la misurazione delle prestazioni - sono ampiamente coinvolte nella mia gestione quotidiana dei giocatori-atleti e sono di grande aiuto nel prendere decisioni su ciò che ritengo sia meglio per un determinato atleta in un determinato momento.

Il coaching è una disciplina decisionale, quindi, per quanto la tecnologia possa essere utile, la cosa più importante è che aiuti nel processo decisionale piuttosto che offuscarne il processo.

Ad ogni modo la tecnologia è utile soltanto quando chi, alla fine del processo di decisione, prende decisioni giuste, chiunque sia.

Che ruolo hanno le competenze delle persone nel suo lavoro e nella sua vita?

La prestazione è fatta di persone. E’ tutta una questione di persone. Le relazioni, le storie e i sogni delle persone coinvolte nello sport sono quello che gli danno valore e che dovrebbero essere il fondamento di ogni programma.

Il successo in ogni momento è soltanto una tappa in un percorso.

Se quella medaglia/ trofeo/ campionato rappresentano un periodo tossico nel percorso di un individuo o di in una squadra allora sarà nei migliori dei casi senza significato e nel peggiore un insegnamento su quello che non bisogna fare.

Questo non vuole dire che non ci dovrebbero essere sforzi; lo sforzo per migliorarsi, con l’obiettivo di raggiungere qualcosa di grande difficoltà, accanto ad un gruppo di persone in un percorso di questo tipo è una cosa davvero molto speciale.

Ritengo che la prestazione dovrebbe essere un processo condiviso di questo percorso di apprendimento, sviluppo e comprensione di se stessi.

Lo sport e tutto quanto gli sta attorno è un meraviglioso veicolo di questo percorso e le persone che viaggiano insieme sono la parte più importante di questo.

Qual è il risultato che intendete ottenere per i coach attraverso il vostro contributo all'IFAC 2020?

Se posso condividere qualcosa di quanto ho vissuto sino ad ora e alcune delle mie convinzioni attuali nel processo di sviluppo dell’eccellenza negli atleti con cui lavoro; e se gli allenatori che parteciperanno troveranno che questo stimoli una parte della loro  curiosità, con ipotesi convalidate/domande riguardo le loro stesse idee e se troveranno qualche valore in quello che condivido, allora sarò molto contento di quanto fatto.

 

Traduzione a cura di Andrea Uberti e Matteo Rozzarin

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Vincere con l’intelligenza emotiva. Intervista a Catherine Baker

26 Febbraio 2020 by Redazione

Catherine Baker

Con l'intervista a Catherine Baker diamo il via alla nostra rubrica dedicata ai relatori dell'International Festival of Athletics Coaching 2020, che si terrà il 28-29 Marzo 2020 presso l'Elite Athlete Centre a Loughborough (UK).

Qui puoi trovare maggiori informazioni sulle modalità di iscrizione ed i costi IFAC 2020

Ricordiamo che se sei nostro tesserato potrai usufruire, fino al 1 marzo 2020 di un codice sconto (puoi richiederlo scrivendoci a info@ilcoach,net.

Chi è Catherine Baker e di cosa parlerà all'Ifac 2020?

[Tweet ""Le emozioni guidano i pensieri ed i pensieri guidano il comportamento e il comportamento guida le performance" Catherine Baker - IFAC 2020"]

Catherine è esperta di miglioramento delle prestazioni grazie al miglioramento delle emozioni, dei pensieri e del comportamento, la cosidetta "Intelligenza emotiva"

Alla conferenza del 28-29 marzo la sua presentazione avrà il titolo "Building Emotional Intelligence", costruire l'intelligenza emotiva.

A Catherine abbiamo rivolto alcune domande:

Lei è una personalità di grande successo nel mondo dello sport. Quali sono, secondo lei, i fattori chiave che portano a grandi risultati?

Uno dei miei slogan preferiti è

[Tweet "Fortuna = opportunità + preparazione."]

Credo che la determinazione mentale sia la chiave di ogni successo e di ogni conquista.

Se si ha la mentalità giusta, quella che porta ad essere resilienti, concentrati, determinati, di mentalità aperta, ottimisti e motivati, allora potete affrontare qualsiasi cosa, e ottenere cose incredibili.

Come si fa ad essere sempre all'avanguardia in un costante processo di miglioramento personale?

La curiosità è una caratteristica comune a tante persone "di successo" nella vita.

La curiosità stimola un desiderio incessante di capire le cose, di crescere e migliorarsi, e più a lungo si riesce a mantenere questo senso di curiosità, più a lungo si può continuare a progredire.

Che ruolo ha la tecnologia nel suo lavoro e nella sua vita?

Per me la tecnologia è un elemento che mi rende molto più efficiente nella vita di tutti i giorni.

Tuttavia, la tecnologia non è la risposta in sé.

A titolo di esempio, la tecnologia può essere uno strumento eccezionale per risolvere i problemi.

Ma come possiamo stabilire quali problemi devono essere risolti?

Quali altri fattori sono rilevanti a questo proposito?

In che modo il contributo umano aggiunge valore?

Quindi la tecnologia è parte del mosaico, non lo rappresenta integralmente.

Che ruolo hanno le competenze delle persone nel suo lavoro e nella sua vita?

Per me le abilità delle persone costituiscono la base.

Mi fa arrabbiare ogni volta che sento definire "abilità delle persone" come "soft skills", in quanto ciò suggerisce che si tratti di un "extra", o di una piacevole aggiunta.

Dalla mia prima carriera di avvocato, passando per le mie esperienze sportive sia come allenatore che come atleta, fino al mio lavoro con dirigenti a vario livello e i team in diversi ambiti, sono le capacità delle persone a fare la differenza. Questo porta a risultati migliori.

Questo fa sì che le cose funzionino. Molte delle questioni che affrontiamo si riducono a problematiche legate alle persone, e se non siete in grado di orientarvi in questo senso, non otterrete un successo duraturo, qualunque sia il campo in cui lavorate.

Qual è il risultato che intendete ottenere per i coach attraverso il vostro contributo all'IFAC 2020?

Spero che i coach se ne tornino a casa avendo acquisito strumenti e idee pratiche per costruire la propria intelligenza emotiva, oltre ad avere una migliore comprensione di quanto essa sia fondamentale.

 

Traduzione a cura di Matteo Rozzarin

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Intervista ad Andrea Calandrina

12 Aprile 2017 by Redazione

Bianca-Falcone

Andrea Calandrina nato il 9 aprile del 1973, ha iniziato ad allenare nel 1992 (dopo aver conseguito il brevetto da istruttore Fidal), allenatore dal 1994, allenatore nazionale specialista di prove multiple dal 2007. Nel palmares dei suoi atleti:

  • 27 titoli di campione italiano assoluto o giovanile (8 differenti atleti);
  • 45 medaglie d'argento o bronzo ai campionati italiani con 16 differenti atleti;
  • 10 migliori prestazioni italiane;
  • 6 atleti che hanno vestito la maglia azzurra.;
  • 1 Medaglia d'oro alle gymnasiadi a pechino nel 1998 nei 400 hs;
  • medaglia d'argento ai mondiali under 18 nel 1998;
  • medaglia di bronzo agli europei junior 1998 sempre nei 400 hs;
  • medaglia di bronzo ai giochi del mediterraneo under 23 nel 2016 nel salto con l'asta.

Atleti allenati in questo momento: Simone Cairoli, Bianca Falcone, Andrea Petazzi, Valentino Arrigoni (programmazione e salto con l'asta) Helen Falda (quando è in Italia).

Principali atleti allenati in passato: Luca Bortolaso (prove multiple e 400 hs), Sara Bruzzese (salto con l'asta).

Insomma, un curriculum da allenatore di alto livello, altro non va aggiunto riguardo la nostra scelta di intervistarlo!

Allenare ed allenarsi per le prove multiple in Italia è per certi versi una scelta contro corrente. Alla carenza di strutture e di risorse, comune un po' a tutte le discipline dell'atletica, per i multiatleti si aggiungono quelle di mancanza di considerazione e del tempo per gli allenamenti.

Lo scorso marzo però Simone Cairoli ha saputo conquistarsi una convocazione agli Euroindoor di Belgrado nell'eptahtlon, vestendo la maglia azzurra in un contesto ben diverso da quello nazionale e ripagando la fiducia del settore tecnico con una prova di grande carattere e sostanza.

Abbiamo fatto alcune domande ad Andrea Calandrina, che da alcuni anni segue la sua preparazione e la sua crescita tecnica.

Secondo te quali sono le caratteristiche principali che deve avere un multiatleta per ottenere buoni risultati e quali le competenze che servono al suo tecnico?

Questa domanda prevede una risposta su piani differenti. L'atleta delle prove multiple da un punto di vista fisico deve essere un atleta prevalentemente veloce e potente, con una struttura di base importante che consenta di reggere i volumi di lavoro che per allenare le prove multiple non possono che essere notevoli. Da un punto di vista caratteriale deve essere capace di affrontare tutte le discipline senza pensare a quella precedente o alla successiva, deve sapersi esaltare quando le cose vanno bene e non abbattersi se qualcosa va storto.

Da un punto di vista coordinativo e delle capacità di apprendimento dei gesti motori deve essere un fuoriclasse (Kevin Mayer ne è l'esempio più evidente)

Le competenze che servono ad un tecnico delle prove multiple credo siano infinite, non si smette mai di imparare, ci si confronta con moltissime situazioni differenti; due atleti diversi spesso vanno allenati in modo molto diverso anche per la stessa specialità. Credo che la competenza più importante sia la capacità di personalizzare il lavoro in base alle esigenze del singolo atleta.

L'evoluzione di Simone negli anni è stata costante, tanto che oramai da qualche stagione sta dominando la scena del decathlon italiano. La convocazione a Belgrado però è arrivata soprattutto perché non vi siete accontentati di questa supremazia “locale”. Dove avete cercato questi ulteriori stimoli?

Ho sempre pensato che non ci si debba accontentare dei risultati che si ottengono e che il mezzo migliore per crescere sia confrontarsi con i migliori per questo ormai da qualche anno cerchiamo di organizzare stage di allenamento o gareggiare in Francia dove le prove multiple e il salto con l'asta sono specialità con un livello molto più alto del nostro. Siamo consapevoli che Simone per caratteristiche è più competitivo nelle gare indoor quindi quest'anno abbiamo programmato una stagione mirata a questa qualificazione iniziando già a gareggiare nell'eptathlon nel mese di dicembre a Clermont Ferrand e riuscendo a raggiungerla ai campionati francesi Elite di Bordeaux. Per questa opportunità occorre ringraziare l'Atletica Lecco Colombo Costruzioni che ci sostiene sempre nei nostri progetti.

Simone, come noto, è fondamentalmente un dilettante che oltre allenarsi lavora. Come siete riusciti ad organizzare la sua preparazione in questa situazione?

Ormai sono anni che affrontiamo questa situazione; fino alla scorsa stagione con un lavoro full time gli allenamenti erano organizzati con tre lavori di forza in palestra la mattina prima del lavoro (alle 6) allenamenti molto brevi alla sera, curando solo quello che ritenevamo essenziale delle specialità (massimo un'ora e mezzo compreso il riscaldamento) e per finire due allenamenti più lunghi nel fine settimana; da settembre con il lavoro part-time le cose sono molto migliorate, abbiamo mantenuto la forza staccata dal resto degli allenamenti, ma non sempre deve essere fatta all'alba, e abbiamo potuto dedicare molto più tempo alle specialità e alla cura dei dettagli tecnici nelle sedute pomeridiane anche grazie al fatto che anche io cambiando lavoro ho avuto molto più tempo libero nel pomeriggio.

Nel corso di questa stagione, in ottica decathlon, l'obiettivo principale sarà esaltare i suoi punti di forza o cercare di colmare alcune delle sue lacune? Quali, se ce ne sono, secondo te sono le gare “chiave” per un decatleta?

Nel classico dilemma allenare i punti forti o quelli deboli la mia scelta è sempre caduta sulla prima delle due opzioni per varie ragioni: gli allenamenti sono più graditi agli atleti, le gare forti danno soddisfazioni anche al di fuori del decathlon, sapere di avere delle gare forti da sicurezza. Naturalmente un'attenzione importante va data alle tabelle di punteggio con una domanda che io mi faccio all'inizio di ogni stagione: in quali specialità posso guadagnare più punti senza dedicare un tempo eccessivo al loro sviluppo e senza che ciò comprometta le prestazioni in altre gare? Il tempo dedicato a lungo e asta questo inverno ha dato i frutti sperati e ora ci auguriamo che anche il disco faccia la sua parte.

Se devo pensarla in ottica generale le gare chiave del decathlon sono le prime tre della seconda giornata dove i veri specialisti fanno la differenza. In chiave personale con Simone sono invece le prime tre della prima giornata perché per lui lanciarsi nel modo giusto è fondamentale.

Chi è abituato a vedere gareggiare Simone ne conosce i punti di forza e le debolezze. Per quanto riguarda invece Simone in allenamento, quali sono i suoi pregi e, se ce ne sono, quali gli aspetti su cui può lavorare per migliorarsi?

Simone è un ragazzo molto positivo e disponibile a mettersi in gioco negli allenamenti, i risultati ottenuti non lo hanno minimamente cambiato, anzi lo hanno reso ancora più aperto verso gli altri e verso proposte di allenamento diverse anche nelle specialità che meno gradisce. Di lui apprezzo molto il fatto che si allena con chiunque gli venga proposto (il suo sparring partner per molti lavori di partenze quest'anno è stato un bambino di 9 anni) e che abbia sempre un atteggiamento costruttivo.

Deve sicuramente migliorarsi nella cura dei dettagli in allenamento che a volte lui sacrifica a favore di una ricerca della prestazione (vorrebbe sempre cronometrare e misurare tutto quello che fa) e deve avere il coraggio di esplorare i suoi veri limiti nella prova finale che crea ancora troppo timore reverenziale

Belgrado ha visto la conferma della stella di Kévin Mayer. Mayer, senza avere le caratteristiche fisiche eccezionali di un Ashton Eaton, sta dimostrando che si possono ottenere prestazioni e vittorie anche con doti da “superman motorio”. Anche altri degli atleti che han gareggiato con Simone a Belgrado, (ad esempio Ureňa) oltre che forti sono sembrati decisamente “bravi” e tecnicamente ben impostati. Credi che in Italia si sia persa la coltura del gesto sportivo e della precisione nella tecnica?

Credo che ci sia un discorso di scelta delle specialità alla base di questo; in altre nazioni i migliori atleti giovani vengono indirizzati alle prove multiple e svolgono per anni una preparazione di tipo multilaterale, in Italia approdano alle multiple gli atleti che non hanno sfondato in nessuna specialità. Inoltre negli anni ho notato la cattiva tendenza dei tecnici a specializzare gli atleti nella prova multipla della loro categoria (tralasciando specialità chiave che vanno conosciute già da giovanissimi come disco e asta). Semplicemente i nostri atleti sono in ritardo di anni rispetto a quelli di nazioni come Estonia, Francia, Germania dove fin dall'età della scuola elementare provano anche queste specialità

Sappiamo che sia tu che Simone amate viaggiare sia per gareggiare che per aggiornarvi tecnicamente. Quali sono secondo te in questo momento le scuole atletiche di riferimento?

La nostra scuola di riferimento è sicuramente quella francese con cui ormai abbiamo avviato importanti e continui contatti e risulta essere anche quella più comoda da un punto di vista logistico. Mi piacerebbe molto avere l'opportunità di girare l'Europa per conoscere altre realtà come quella estone, tedesca, ceca, britannica e continuare il mio processo di crescita professionale. A Belgrado abbiamo fatto dei passi in questa direzione prendendo molti contatti, infatti nel prossimo inverno Simone potrà partecipare all'importante incontro di prove multiple indoor di Praga. Per poter rendere operativi questi contatti e realizzare stage la federazione dovrà però darci il sostegno logistico ed economico necessari, quindi alle parole di lodi verso i risultati ottenuti finora speriamo seguano i fatti per poter ottenere risultati ancora migliori.

Helen Falda, una atleta con cui hai collaborato con successo, si è trasferita negli USA dove sta studiando e sta proseguendo nel suo percorso di evoluzione tecnica. Cosa ne pensi di questa scelta? Credi che la “carta americana” possa essere una buona soluzione per un atleta italiano e a quali condizioni?

La carta americana per Helen è stata fin da subito una mia proposta, ho contattato decine di coach e preso molti contatti perché lei potesse provare a fare questi 4 anni di università e atletica nel migliore dei modi. Lo scorso anno anche in allenamento abbiamo scelto di lavorare in funzione dei 4 anni futuri pensando a risolvere un problema di insicurezze e sperando che il tecnico americano sulla nostra base stabile potesse costruire quei miglioramenti tecnici che abbinati alle grandi doti di velocità di Helen e alla sua spiccata professionalità e voglia di migliorare sempre sta portando agli ottimi risultati che si possono vedere.

Sicuramente la scelta americana consente di allenarsi in strutture ottime e di avere a disposizione staff fisioterapico e medico costantemente. Fra i pro della scelta sicuramente il fatto che le ore giornaliere di università sono poche 3-4 mentre quelle disponibili per allenarsi molte 5-6, cosa molto diversa dalla realtà italiana.

Il sistema americano non deve essere considerato infallibile; secondo me molti tecnici delle università americane sono di medio-basso valore, noi siamo stati molto fortunati in questo senso anche grazie ad un cambio in corsa del tecnico che la segue.

Un altro fattore negativo è che gli atleti sono lasciati molto liberi al di fuori degli orari di allenamento con possibili problemi legati ad alimentazione sbagliata o all'eccessivo numero di feste e svaghi offerti dall'ambiente del campus e qui la professionalità dei ragazzi entra in gioco perché devono essere bravi ad auto-regolarsi.

A questo punto della tua carriera da tecnico, dopo tanta esperienza e tanti risultati puoi sicuramente considerarti un allenatore capace: come fa secondo te a migliorare e a crescere un tecnico sostanzialmente già bravo?

Io ho avuto una grande fortuna perché due dei bambini della prima generazione di atleti che ho seguito a Canegrate avevano grande talento e motivazioni e sono diventati atleti della nazionale assoluta, questo mi ha dato l'opportunità di frequentare molto Formia e di poter imparare da grandi allenatori stranieri come Zotko e Petrov e dagli italiani Frinolli e Tucciarone. Grazie a Sara Bruzzese sono entrato in contatto con tecnici americani che hanno molto modificato il mio approccio al salto con l'asta. Mentre negli ultimi anni con Helen e Simone ho conosciuto e imparato da molti dei tecnici francesi più importanti come Cochand, Collet e Innocentio.

Credo che il confronto, l'aggiornamento continuo e il restare con la mente aperta verso nuove idee e nuovi modi di affrontare l'allenamento sia il modo migliore di continuare a migliorare.

Le due cose che vorrei per il proseguimento della mia carriera sono l'opportunità di poter trasferire ad altri tecnici la mia esperienza e le mie conoscenze e l'opportunità di un'esperienza di lavoro all'estero; spero che almeno uno di questi due obiettivi possa trasformarsi in realtà

Ringraziamo Andrea per la disponibilità, e auguriamo un' ottima stagione outdoor a lui ed agli atleti che segue!

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Alberto Franceschi, intervista sulla sua esperienza a Rio!

30 Settembre 2016 by Redazione

Alberto Franceschi, intervista sulla sua esperienza a Rio!

Alberto Franceschi è un giovane atleta di buon livello, con un personale nel salto in alto di 2,06 metri, che veste la maglia dell'Atletica Piemonte ASD Ha scelto lo sport non solo come passione ma anche come attività per i propri studi ed il progetto del proprio futuro.
Laureato in Scienze Motorie, questa estate ha potuto gustarsi i Giochi Olimpici di Rio da dietro le quinte, partecipando nell’organizzazione come volontario.

Inoltre è fondatore del sito Jump Experience  che organizza l'High Jump Meeting a Chieri

Abbiamo pensato di fargli alcune domande:

 

Intervista ad Alberto Franceschi

Ciao Alberto, ci racconti qualcosa di te, di come hai conosciuto l’atletica e cosa significa per te?

Alberto Franceschi: In due parole mi definirei uno studente-atleta. Non perché sia un eccellente studente e tanto meno un grande atleta, semplicemente penso che le attività si possano completare e non vedo perché un giovane non possa mettersi in gioco intraprendendo percorsi stimolanti. Ho 22 anni, vivo a Chieri, a mezz’ora dal centro di Torino e quest’estate ho terminato il percorso triennale all’Università laureandomi in Scienze Motorie. La mia vita corre lungo l’asse di queste due città tra università e pista.  Non appena terminate le lezioni mi dirigo allo Stadio Primo Nebiolo per allenarmi insieme alla mia allenatrice Valeria Musso e al mio gruppo di saltatori. Quando sono in difficoltà con orari improbabili e spostamenti complicati ho comunque la possibilità di allenarmi a Chieri nel campo della società in cui ho cominciato a fare atletica nel 2004.

Il primo impatto con l’atletica non fu proprio dei migliori, dalla prima gara realizzai che sarebbe stata una strada in salita che riusciva però a darmi una grande energia per affrontare ogni momento della giornata. Nell’aprile del 2004 partecipai alla prima gara di atletica, proprio allo Stadio Nebiolo, con la mia scuola elementare. Ricordo solo che ero riuscito ad andare in finale nei 60 ostacoli e che all’ultima di queste barriere inciampai. La mia corsa verso il traguardo terminò in maniera brusca con la faccia stampata sulla pista rossa. Le Olimpiadi di Atene guardate in tv e le gare di corsa e salto in lungo in cortile insieme ai miei fratelli sono state il primo step che ha convinto i miei genitori a portarmi al campo di atletica. Arrivò settembre, mamma decise di portarmi al campo di atletica e da quel giorno non ho potuto che tornarci tutti i pomeriggi.

 

ilCoach tratta principalmente di atletica, ma ci piacciono tutte le discipline sportive. Tu che rapporto hai con gli “altri sport”?

Alberto Franceschi: Da sempre in famiglia ho imparato a conoscere diverse attività sportive. Prima di iniziare con l’atletica ho provato il basket, la pallavolo e il calcio. Tante domeniche passate sulla mountain bike o sui pattini a rotelle. Più che lo sport in se’, amo l’idea di movimento. Lo sport è solo una delle molteplici espressioni di quest’ultimo. Parlando di forme di movimento, e non necessariamente di sport, mi è più facile creare connessioni e fare confronti tra discipline diverse dall’atletica in modo da capire cosa serve al nostro sport per crescere. Non solo dal punto di vista tecnico o della metodologia di allenamento, più in generale mi piace seguire discipline spettacolari per imparare sempre qualcosa di nuovo e godersi la bellezza dello sport. E ancora qualche partita a beach volley con gli amici.

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Ci dici quale era il tuo ruolo a Rio e che tipo di esperienza è stata?

Alberto Franceschi: Quando decidi di inviare l’application online per essere volontario ai Giochi Olimpici per la testa ti può passare di tutto. Viste le molteplici discipline e i servizi offerti da un edizione dei Giochi non puoi sapere se e dove finirai a fare servizio. La fortuna ha deciso però di stare dalla mia e sono stato selezionato per l’atletica leggera precisamente all’Olympic Stadium. Per non farci mancare nulla, sono stato inserito nel team “Field of Play”, impegnato nella preparazione dei locali tra il campo di riscaldamento e quello di gara. Non avevo un ruolo preciso che ripetevo allo stesso modo tutti i giorni, ma ho prestato servizio in diversi locali come la call room, la mixed zone, l’area di preparazione del cerimoniale e il campo di gara entrando in pista in compagnia dei giudici per spostare ostacoli o posizionare i coni numerati per le corsie delle gare di corsa.  L’atmosfera all’interno dello stadio è magica, poi se hai la fortuna di entrare per posizionare i coni numerati per le corsie della finale dei 100 metri di Bolt & compagni allora realizzi di essere al posto giusto, al momento giusto per vivere uno spettacolo più unico che raro che si ripete in meno di dieci secondi ogni quattro anni. E’ qualcosa che si fa fatica a raccontare, un concentrato di emozioni indescrivibili, perché fino a qualche istante prima tutto ciò lo avevi sempre visto in televisione e stare a due passi dalla partenza della finale olimpica dei 100 metri è una cosa fuori da ogni logica.

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Le Olimpiadi sono la massima manifestazione sportiva a livello mondiale. Sono l’estremo, il vertice di una piramide che vede al proprio opposto la massa di occasioni per confrontarsi nello sport nelle scuole, negli oratori, nelle piazze. Cosa è che si conserva in un’Olimpiade e rimane uguale rispetto allo sport fatto in cortile? Cosa si guadagna? E cosa si perde?

Alberto Franceschi: Certamente i Giochi Olimpici sono la punta dell’iceberg di un percorso che parte per tutti o quasi da un gioco fatto da ragazzini al campo, in palestra o in un cortile.  Credo che l’elemento comune che connette gli estremi di questo mondo sia l’obiettivo di migliorarsi di ciascun atleta o ragazzo che decide di confrontarsi con l’atletica. Probabilmente il desiderio di andare alla ricerca dei propri limiti, siano essi primati personali o record mondiali, rappresenta la componente primaria di ogni tipo di evento. Questo lo troviamo dalle sfide in cortile fino alla finale olimpica: la dimensione dell’evento delinea solo i particolari e tende ad ottimizzare il contesto in direzione dello spettacolo. Nelle gare locali ma anche ad un campionato italiano si tende tanto a curare aspetti organizzativi tradizionali poco funzionali per il coinvolgimento e divertimento del pubblico. Il format delle competizioni di atletica del nostro paese deve muoversi in direzione dello spettacolo per esaltare la performance degli atleti e divertire il pubblico. Le gare di salto con l’asta in piazza o meeting riservati ad una sola specialità come il salto in alto sono un bel punto di partenza per far crescere il nostro sport.

 

Se è possibile scegli un immagine che ti ha lasciato questa esperienza.

Alberto Franceschi: Sintetizzare tutti gli attimi di questa esperienza a cinque cerchi risulta essere uno dei compiti più difficili. I Giochi Olimpici ti danno un qualcosa di non quantificabile, ti lasciano dentro momenti forti e vivi di sport. L’immagine più significativa di queste Olimpiadi però non racconta una vittoria, un record o una medaglia. Mi porto a casa le immagini di quel colloquio tra Serghey Bubka, Thiago Braz Da Silva e Renaud Lavillenie a seguito della cerimonia di premiazione del salto con l’asta. Se già lo spettacolo della finale era stato in parte rovinato dall’atteggiamento di stampo calcistico dei tifosi brasiliani nei confronti di Lavillenie, anche la cerimonia di premiazione ha visto il ripetersi di questo gesto da parte di un popolo abituato a palcoscenici diversi. La IAAF e il Comitato Organizzatore hanno così organizzato una seconda premiazione in forma intima e privata nei locali interni dello stadio per celebrare la medaglia d’argento del primatista del mondo indoor.

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Le trasferte sono un elemento che accomuna, da un certo livello in poi, qualsiasi attività sportiva. Questo spesso è un fattore che può dare una grande motivazione a chi ama viaggiare ma che può comportare qualche rischio. Una “cattiva” trasferta infatti talvolta rischia di rovinare il lavoro di mesi. Come ti sei organizzato per questo viaggio sportivo?

Alberto Franceschi: Decidendo di partire da solo ho dovuto curare al meglio ogni singolo aspetto della trasferta olimpica. Il comitato organizzatore non garantisce grosse agevolazioni e i benefici del volontario ai Giochi Olimpici non sono sicuramente di carattere economico. Di conseguenza fin dalle prime battute del processo di selezione è bene fare qualche calcolo per capire quanto è necessario per vivere al meglio un’esperienza olimpica. Viste le spese di viaggio e l’accomodation a carico dei volontari, mi sono organizzato lavorando nel periodo primaverile ed estivo due giorni la settimana nel parco avventura presente tra Chieri e Torino in modo da avere una solida base di partenza. Purtroppo i tempi di selezione sono molto lunghi e solo ad aprile ho avuto la conferma del ruolo. Per dormire ho optato per una soluzione comoda e sicura come Airbnb proprio perché in una città come Rio de Janeiro è bene sempre sapere dove si va. Tra una gara e l’altra ho anche avuto l’opportunità di visitare alcuni dei simboli di Rio come il Cristo, il Pan di Zucchero e le spiagge infinite di Ipanema e Copacabana in compagnia di volontari e amici provenienti da ogni angolo della terra.

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I viaggi sono anche l’occasione per conoscere, esplorare, mettere in discussione le proprie convinzioni. Le manifestazioni internazionali in particolare, da un certo punto di vista, sono una grande opportunità di confronto e crescita multiculturale. Tu cosa credi di avere imparato da Rio?

Alberto Franceschi: Confronto, condivisione e crescita. Sono tre capisaldi di un viaggio che sai già in partenza che ti darà molto. I Giochi di Rio mi hanno offerto l’opportunità di incontrare il mondo intero in un’unica città. Ogni giorno allo stadio Olimpico avevo l’occasione di scambiare due chiacchere con le più svariate persone dagli atleti agli addetti mensa, dai coach ai team leader ma ciascuno a modo suo mi ha trasmesso una parte della sua esperienza. Come risultato, porto a casa un puzzle colorato fatto di volti, parole, immagini che raccontano le storie di migliaia di sognatori tra atleti, allenatori, spettatori e volontari. Ho anche imparato come vivono l’atletica nel contesto universitario in altri paesi come in Germania e in Brasile confrontandomi con altri volontari.

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Oltre che atleta sei anche un allenatore o, per lo meno, ti stai attrezzando per diventarlo. Spiegaci come stai pianificando la tua crescita professionale in questo senso?

Alberto Franceschi: Non mi considero un allenatore al momento. Non nego però che in un futuro più o meno lontano possa dedicarmi anche a questa attività. Ho comunque iniziato a dare una mano alla mia allenatrice a seguire i ragazzi delle categorie cadetti e allievi quando non riesce ad incastrare gli allenamenti di tutto il gruppo. Prima però sento l’esigenza di dovermi formare in maniera completa e professionale facendo esperienze anche al di fuori del mio contesto. Ho così deciso di proseguire gli studi all’estero viste le proposte stimolanti provenienti dai paesi europei. A ottobre inizierò un percorso di studi inter-universitario “International Master in Performance Analysis of Sport” che mi vedrà impegnato in Germania (Otto-Von-Guericke University, Magdeburg), Portogallo (University of Tràos-os-Montes and Alto Douro, Vila Real) e Lituania (Lithuanian Sports Univesity, Kaunas). Non è stata una scelta semplice, ma penso possa essere funzionale al futuro che ho sempre sognato di vivere con lo sport e l’atletica al centro delle mie giornate.

Andrea Uberti - cofondatore de IlCoach

Andrea Uberti

Combined Events Coach | ilCoach.net ASD Vice President
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Filed Under: Interviste Tagged With: Alberto Franceschi, intervista, Jump Experience, olimpiadi 2016, rio 2016, Scienze motorie

Darcy Ahner, intervista alla coach di salto in alto della UCSD

25 Settembre 2016 by Redazione

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In questa intervista, Robert Marchetti che ringraziamo per la gentile concessione alla traduzione (l’originale è qui), discute con Darcy Ahner, capo allenatore alla UCSD (Università di San Diego) alcuni aspetti fondamentali del salto in alto. Noi intendiamo sottolineare, prima ancora dell’aspetto tecnico (si sa, gli americani non tradiranno mai la loro impostazione e fama di incalliti biomeccanici), una forma mentis che traspare da questi articoli (si veda anche quello sull’allenamento della tecnica nel salto in lungo), che vorremmo in qualche modo o in qualche parte passasse nel nostro piccolo/grande mondo. In primo luogo la grande disponibilità a cercare di fare rete condividendo idee ed esperienze, in secondo luogo, ma non ultima per importanza, la disarmante propensione a dichiararsi in debito verso i maestri, di riconoscere il portato di esperienza di atleti e colleghi. Certamente questa è l’immagine tipica di una comunità professionale al pari di altre tra le più evolute, comunità che vivono e si organizzano sulla base di una formazione continua, di crediti, di gruppi di discussione, di riconoscimenti tangibili.

ilCoach in questi giorni ha abbozzato una prospettiva, mettiamoci in movimento.

Buona lettura!

 

Intervista a Darcy Ahner, allenatrice di atletica della UCSD

Darcy Ahner è una delle migliori coach di salto in alto della NCAA, e i risultati sulla pista lo dimostrano. Lei ha allenato campioni a livello nazionale e avviato svariati saltatori uomini da oltre 2,10 e donne da oltre 1,80. L’abilità più riconosciuta a Darcy è la sua comprensione completa dei salti da un punto di vista biomeccanico, come pure la capacità di applicarne i principi ai suoi atleti. Molto spesso i suoi atleti raggiungono progressioni davvero ragguardevoli dal momento in cui entrano a far parte del suo programma.  

Prima che alla UCSD, Darcy ha allenato alla Northern Arizona, e alla University of New Mexico. Darcy Ahner si occupa anche dell’allenamento di atleti assoluti e paralimpici. 

Darcy Ahner

Darcy Ahner. Foto tratta dal profilo Linkedin di Robert Marchetti

 

Coach Ahner, grazie per aver trovato il tempo per questa intervista. Come hai cominciato ad allenare?

Darcy Ahner: Quando ho terminato la mia idoneità, il mio allenatore al college ha fatto l'offerta che si vede spesso nel nostro sport: "prova a gareggiare con meno intensità facendo allo stesso tempo da assistente allenatore." Così ho fatto, e ho capito che ero più brava da allenatrice che da atleta.

 

Chi ti ha aiutato di più nella fase di apprendimento del coaching? 

Darcy Ahner: Ho avuto alcuni grandi maestri quando ho frequentato per molto tempo e con una certa frequenza il Livello II della scuola di coaching.  Bob Meyers, Boo Schexneyder, Dan Pfaff, Rocky Light... solo per citarne alcuni.  

Lungo la strada ho raccolto tanti spunti da tanti buoni allenatori, ma soprattutto gli atleti mi hanno insegnato tantissimo.

 

Qual è il più grande fattore limitante per il miglioramento dei saltatore in alto a livello universitario?

Darcy Ahner: Se si dispone di un atleta motivato che ha tutti gli strumenti giusti, penso che il fattore che più incide sia di solito l'aspetto mentale.  Quando l’asticella viene posta davvero in alto, è la ferma convinzione al momento in cui si avvia la rincorsa a determinarne il successo, o forse anche la capacità di rimanere concentrati sull’esecuzione al punto tale da non lasciare spazio a dubbi.  

 

Nella tua metodologia di allenamento per i saltatori, quanto è importante lo sviluppo della velocità e dell’accelerazione nel programma di allenamento?

D. A.: Si tratta di una parte importante, ma credo in modo equilibrato. Credo che tutti gli aspetti dell’allenamento del Salto in alto quali velocità assoluta, velocità in curva, la forza applicata al salto, la forza assoluta, la tecnica, la necessità di un recupero mentale e consapevole devono essere parte dell'intero processo di allenamento.  

 

Riesci a mettere in evidenza i fondamenti chiave di una buona curva di nella rincorsa del salto in alto?

Darcy Ahner:

  • La fase rettilinea è di forza – sicura dalla testa ai piedi

  • Il piede rimbalzante e attivo sotto il centro di massa

  • Mantenere una inclinazione equilibrata nella fase di velocizzazione e in curva

  • Allineamento del piede

  • Lieve inclinazione del lato destro (per chi salta di sinistro e viceversa) sapendo mantenersi in velocità

  • Essere pazienti con la velocità nella transizione da fase rettilinea alla curva

  • Il ritmo verso lo stacco viene stabilito negli ultimi quattro appoggi in curva

 

Coach, descriva per noi il modello di una buona fase di stacco, da due angolature diverse se si vuole... La prima, che cosa dovrebbe cercare l'allenatore per quanto concerne la meccanica e da un punto di vista antropometrico? 

Darcy Ahner: Credo che gli allenatori spesso definiscono la fase di stacco per gli ultimi 2 appoggi (il penultimo e quello di tutta pianta) e il decollo vero e proprio, ma tutto sembra troppo interrelato ai miei occhi per non includere gli ultimi tre se non quattro appoggi prima dello stacco.

Io ricerco questa situazione:

  • Il mantenimento delle posizioni del corpo  stabilite in curva (vedi sopra) alti, inclinati verso l'interno, piede attivo sotto il CdM, allineamento del piede (cioè senza “uscire” nel penultimo appoggio)

  • Un buon ritmo allo stacco  grazie a una rapidità crescente degli ultimi quattro appoggi (1-2 pausa 3-4)

  • Quindi, forte impulsto sull’appoggio di stacco (fase tra terzo e ultimo appoggio)     per ottenere una buona oscillazione dell'anca e rimanere in spinta, anche per spostare il bacino con forza sull’appoggio di pianta.

  • Il CdM viene abbassato negli ultimi 4 appoggi e avanza decisamente,   senza balzare durante il penultimo

  • Il penultimo appoggio del piede si conforma come un rapido movimento di spinta in rotazione per mantenere la velocità durante lo stacco invece di caricare il piede e spezzarne il dinamismo. (L’uscita dalla traiettoria è solitamente il problema maggiore di questa fase)

  • La gamba di stacco è rapida, il bacino è rialzato ed allineato precisamente su di essa
  • Il movimento del ginocchio è stretto e veloce, tale da portare in alto la coscia fino a raggiungere il naturale punto di blocco  *    Le braccia (sia entrambe che singolarmente) lavorano intorno a un busto statico, leggermente lontano dal corpo per generare equilibrio nella torsione. I pollici verso il basso, il petto rimane aperto e si estende per creare una risposta riflessa

  • Gli ultimi due passi non sono paralleli all’asticella ma piuttosto formano una leggera inclinazione rispetto l'angolo posteriore del materasso. 

 

In secondo luogo, che cosa dovrebbe sentire l’atleta nella fase di stacco e come affrontarla?

Darcy Ahner: Dipende completamente dall'atleta e da qual è il problema che si sta tentando di correggere.    

Qualunque cosa si stia tentando di correggere nello stacco, in genere è necessario capirne la causa e lavorare su ciò che sta generando il problema. A volte tuttavia funziona anche soltanto dire loro dove vuoi farli arrivare, saranno loro a trovare un modo per arrivarci e impostare tutto al meglio.  

Penso che una delle grandi differenze tra la visione del coach e dell’atleta  è che ci sono così tante situazioni che intervengono per come si sente da dentro o si vede dall’esterno il caricamento e l’alleggerimento nella gestione del penultimo passo e dello stacco.  Un atleta può compiere un ottimo penultimo semplicemente pensando di percepire una transizione, mentre altri hanno bisogno di percepire una azione di recupero.  

Nello stacco alcuni prediligono pazientare fino a caricare solo dopo che si sentono attivi sull’ultimo appoggio, altri rovineranno tutto se cercano quella sensazione, devono quindi pensare ad una azione quanto mai rapida.  Si tratta proprio di riuscire a mantenere tutte le cose al loro posto, ma il punto di partenza è il raggiungimento di posizioni e ritmo giusti, il fatto di arrivare ad avere a che fare con la complessità dello stacco è segno che si è arrivati a un buon livello.  

Darcy Ahner

Darcy Ahner. Foto tratta dal profilo Linkedin di Robert Marchetti

 

 

Proviamo a discutere sulla grande differenza nella biomeccanica dei salti di tanti atleti. Quali tipi di movimenti categorizzeresti da una parte come "stile" o "manierismo",  e quali gli aspetti della forma che non possono andare a discapito dell’efficienza?

Darcy Ahner: Wow. Questa domanda mi esalta perché sento che potrei scrivere un libro su come nel mondo del salto in alto diversi atleti lavorano sui loro punti di forza e di debolezza.  La risposta breve è che tutti hanno bisogno di incanalare la velocità entro una forte azione di stacco partendo da una rincorsa pulita e inclinata, mantenendo quella inclinazione fino a quando il caricamento eccentrico viene completato.  Al decollo vero e proprio ci sono un sacco di modi per crearsi dei problemi nella fase di volo, ma se i problemi li crei lì, di solito si finisce per saltare comunque abbastanza in alto.  

 

In che quantità il vostro programma di allenamento si compone di pliometria, e come si sono evolute le tue idee su questo punto da quando hai cominciato ad allenare? 

Darcy Ahner: Il modo in cui si sono evolute le mie idee sugli esercizi di pliometria hanno determinato la mia convinzione circa la loro criticità, ti possono dare il salto di qualità ma possono anche rivelarsi dannosi. È una metodologia che continuo a studiare. È una parte davvero importante della fase di preparazione, ma una volta che si inizia a lavorare sulla tecnica di salto un paio di volte a settimana, il lavoro di pliometria comincia a diminuire.  Ancora una volta ragiono in termini di un programma equilibrato. 

  

Come lavori sulla salute degli atleti? Quali sono le chiavi per evitare o prevenire gli infortuni? 

Darcy Ahner: La risposta migliore che mi sono data su questo punto è ottenere che i tuoi atleti capiscano davvero che hanno bisogno di ascoltare il loro corpo e che devono sentirsi atleti 24 ore al giorno, 7 giorni su 7.  Ciò che fanno dopo l’allenamento è altrettanto importante, se non di più, di ciò che fanno quando sono in pista. Nel mio caso avendo a che fare con atleti universitari, la gestione del sonno è il più grande problema.  

 

Qual è il tuo consiglio ai giovani allenatori? 

Darcy Ahner: Ascoltare gli atleti e imparare da essi.  Loro sono i vostri insegnanti migliori. Troppo spesso gli allenatori sentono come se dovessero fornire tutte le risposte. Gli atleti hanno le risposte! Devi solo aiutarli a rendersi conto di ciò. Inoltre, non si cerchi il colpo ad effetto, ma piuttosto badino di assicurarsi che gli atleti abbiano i fondamentali.

Grazie, Coach!

--

Nota aggiuntiva: La biografia di Darcy Ahner presso la UCSD si trova qui.

Matteo Rozzarin

Matteo Rozzarin

Istruttore Fidal | Traduttore
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Filed Under: Interviste, Salto in alto, Traduzioni Tagged With: atletica leggera, biomeccanica, biomeccanica salto in alto, Darcy Ahner, high, high jump, ilcoach, ilcoach atletica, ilcoach.net, intervista, interviste, Matteo Rozzarin, salti, salti in elevazione, salto in alto, tecnic asalto in alto, traduzione

Claudio Licciardello: "I miei 400 metri tra Catania, Formia e la Florida"

19 Gennaio 2016 by Redazione

Claudio Licciardello, Catanese classe 1986, grazie all’argento ai campionati Europei Indoor di Torino 2009 è stato l’ultimo atleta italiano (uno dei pochissimi, ndr) a vincere una medaglia sui 400 metri in una competizione internazionale.

In quell’occasione, oltre alla gara individuale, è stato autore di una grande ultima frazione di una staffetta memorabile che ha permesso a Claudio, all’Italia e ai compagni Galvan, Marin e Rao  di salire sul gradino più alto del podio.

[su_youtube_advanced url=”https://www.youtube.com/watch?v=Cc8DVZT-8Yc”]

 

Nell’estate precedente, nella semifinale dei giochi di Pechino, Licciardello era riuscito a portare il personale a 45”25, prestazione che lo colloca come secondo miglior atleta italiano di sempre alle spalle di Barberi e davanti a Zuliani.

Licciardello è stato anche un precursore di quell’ondata di viaggi di atleti italiani verso gli Usa lasciando nel 2011 il caldo della Sicilia per quello della Florida e dell’IMG Performance Istitute di Bredenton diretto da Loren Seagrave.

Gli abbiamo fatto alcune domande per capire cosa possa essere stata l’America per un atleta azzurro.

 

Cosa ti ha spinto a giocare la carta americana e a lasciare l’Italia?

Innanzitutto vi ringrazio per avermi contattato e auguro a tutti voi ed ai vostri lettori un grande 2016, anno molto importante visto l’avvicinarsi dell’impegno olimpico.

Ricollegandomi alla domanda, è esattamente la presa di coscienza di quanto possa essere importante l’anno olimpico, ad aver fatto maturare il bisogno di un più evoluto stimolo psico-fisico, e farmi cercare dei cambiamenti. Il 2012 era l’anno di Londra, occasione per la mia possibile seconda olimpiade. Ho semplicemente cercato il miglior luogo al mondo dove fosse possibile allenarsi ed ho fatto di tutto per andare. Credo che tanti atleti, ad un certo punto della carriera abbiano bisogno di “cambiare le carte del proprio mazzo”, è un motivo per crescere e un momento di confronto che ti rimette in gioco.
L’atletica è uno sport individuale ripetitivo, cambiare luogo di allenamento è uno degli stimoli esterni più difficili da gestire, ma una alta capacità di adattamento porta innumerevoli benefici. Non a caso durante i raduni federali gli atleti spesso esprimono il meglio di sé stessi, vengono messi alla prova. Quell’anno per me è stato un “raduno permanente”.

 

 

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Cosa hai trovato in America che un atleta del tuo livello non può trovare in Italia?

Ho trovato un luogo dove permane il culto dello sport. Sport sano, praticato dai bambini e ragazzi. Non tutti sanno che l’IMG academy è una fucina di grandi tennisti. Da li sono usciti tantissimi dei campioni che tutti abbiamo tifato, da Pitt Sampras ad Andrè Agassi, fino alla Kournikova e la più recente Sharapova. Tutti piccoli campioni che varcano il cancello a 10-12 anni, lasciando parenti e amici nelle loro patrie, ed escono campioni affermati noti in tutto il mondo. L’accademia li porta a diventare professionisti.  Da qualche anno sono stati aperti dei ambienti di specializzazione su diversi altri sport, calcio, football americano, basket, baseball e atletica. È cosi che, affascinati dalla storia dell’accademia e dai progetti proposti, tanti allenatori di altissima specializzazione hanno accettato di lavorare all’interno dell’azienda.

Quello che ho imparato è che alle spalle dello sport professionistico, quello fatto di grandi atleti e grandi tifosi, è necessario ci siano delle aziende serie. L’atleta deve essere messo nelle migliori condizioni per allenarsi, rispettando in primis se stesso ed il proprio fisico. Trovare i migliori orari di allenamento non in base agli impegni che possano avere le persone con cui lavora, ma in base a come il fisico risponde alle sollecitazione proposte. Avere la possibilità di sottoporsi costantemente al monitoraggio dello status biologico del proprio corpo attraverso analisi e riuscire a programmare serenamente gli interventi fisioterapici di scarico muscolare.

Strutture dedicate all’allenamento che ti permettano di avere accesso, senza doversi spostare, a palestre, piscine, campi in erba, piste di atletica, salite, ed attrezzature all’avanguardia.

Così un runner può sentirsi un professionista.

 

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Un’esperienza di un giovane che decide di vivere all’estero può essere un’opportunità formativa anche al di là del punto di vista atletico. Cosa ha dato l’America a Claudio Licciardello? Consiglieresti di partire ad un giovane promettente?

Credo che molti dei nostri giovani abbiano, nei viaggi e negli spostamenti, alcuni dei motivi più frequenti di stress psico-fisico. A mio modesto parere bisognerebbe lavorare per superare questa barriera perché l’atleta evoluto deve costantemente fare i conti con i Jetlags. In questo senso l’esperienza in USA mi ha permesso di crescere moltissimo.

È stato un anno di sacrifici. Casa-allenamento, non esisteva molto altro. Ho imparato a saper soffrire, trasformando e incanalando qualsiasi stato d’animo in voglia di vincere. Questo è uno dei più importanti insegnamenti si possano apprendere.

Non so se consiglierei ad un giovanissimo di lasciar tutto e scappare dall’altra parte del mondo, però quello che consiglierei è certamente di scegliere il proprio luogo di allenamento con cura e soprattutto di non aver paura di affrontare cambiamenti. Sono i cambiamenti che maturano l’essere umano.

Invece quello che mi sento di consigliare a tutti gli atleti di altissimo livello in Italia e di guardarsi attorno e chiedersi, ogni anno, se il luogo dove trascorrono gran parte delle loro giornate, donando fino all’ultimo briciolo di fiato, come solo uno dei “nostri” sa fare, li aiuti a migliorarsi..

 

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Catania, Formia e Bradenton? Cosa ha ciascuno di questi posti in più rispetto agli altri due? E cosa di meno?

Sono tre città cosi diverse ma per certi aspetti nella mia testa suonano con la stessa nota.

Catania è casa mia, il luogo dove tutto è cominciato. La figura che immediatamente si fa spazio è quella del Professore Di Mulo. È lui il mio mentore. Di sicuro tra le figure di riferimento per i tecnici della velocità italiana degli ultimi vent’anni. Formia è una seconda casa, un luogo che amo, dove sono sempre riuscito ad esprimere il meglio delle mie capacità. Il CPO dovrebbe essere un luogo più amato dagli atleti. Bradenton invece mi piace rappresentarlo come “un ufficio”. Un ufficio in cui ho, per un’anno, lavorato sodo.

 

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Loren Seagrave e Filippo Di Mulo. Cosa differenzia il loro modo di pensare i 400 metri e come cambia il ruolo e cosa c’è di diverso nel mestiere di allenatore per un tecnico top in Italia e top negli Usa?

Come detto Filippo Di Mulo è certamente una delle figure di riferimento dell’atletica italiana di ogni tempo, insieme a Pisani e Bonomi, ha fatto la storia della velocità recente. Il prof. e’ sempre stato all’avanguardia. È stato capace di apprendere tutto il possibile dai suoi maestri riuscendo sempre ad evolvere di anno in anno il proprio modo di programmare.

Seagrave, adesso advisor per la FIDAL, ha saputo rispettare la mia impostazione, credendo fermamente nelle mie capacità di sprinter. L’anno negli USA ha modificato profondamente la mia azione tecnica migliorandone l’efficacia e la potenza. Insieme alla base organica in mio possesso, con tanti anni di volumi ad alte intensità, poteva essere una accoppiata vincente.  Purtroppo i miei limiti sono stati sempre quelli di grandi fragilità articolari e tendinee che non mi hanno permesso di esprimermi. Nel 2012, dopo un grande periodo di preparazione invernale ho corso solamente due gare distanziate da lunghi periodi di stop forzato, dovuto al tendine d’achille sinistro (operato tre volte durante la mia carriera), correndo 46.22 all’esordio assoluto e 46.15 dopo due mesi con poco più di dieci allenamenti.

 

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L’ultima edizione dei mondiali di Pechino ha fatto capire che i 400 metri stanno vivendo  un cambio di marcia simile a quanto è accaduto negli ultimi 10 anni con 100 e 200. Per accedere alle grandi finali bisogna correre in 44” e spiccioli e correre in meno di 44”non è più una garanzia di vittoria.
Credi che per gli italiani i 400 metri stanno  diventando l’ennesima specialità dove non è più lecito sognare di vincere qualcosa?

L’atletica è cambiata. Tutti i runners di altissimo livello hanno alle spalle importanti organizzazioni che li sostengono e li migliorano. Siamo entrati nell’era del professionismo. Se non ci attrezziamo, immediatamente, lavorando per una maggiore specializzazione dei nuovi tecnici e alla ricerca di nuove metodologie di lavoro resteremo inesorabilmente indietro.

Da ex atleta, studente in scienze motorie e neo tecnico, sono sempre alla ricerca di nuove esperienze, di nuovi punti di riferimento. Bisogna avere la curiosità di capire perché i nostri vicini di confine (senza scomodare le personalità d’oltre-oceano) corrono mediamente un secondo e mezzo meno di noi. In questo momento pensare di vincere qualcosa di importante è utopico, lavorerei sulle fondamenta, sui giovani che si affacciano al professionismo, regalandogli dei tecnici e maestri di vita all’altezza dei loro sogni.

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L’Italia a livello maschile negli ultimi anni è riuscita ad esprimere qualche buon 400 ista (oltre a Claudio, ricordiamo Barberi, Vistalli, Galvan e lo stesso Andrew Howe) senza però essere stata capace di cogliere successi in campo internazionale.
Secondo te perché non riusciamo a sviluppare talenti in grado di primeggiare per lo meno a livello continentale?

Il primo dato da considerare per questa analisi è la propensione agli infortuni. Ho recentemente raccolto una serie di dati, riguardo alle percentuali di infortunati in Italia, tra gli atleti che preparano i 200 ed i 400 metri, ed i risultati sono impressionanti. Se pensi, inoltre, che tra gli atleti che citi nel testo della domanda, TUTTI hanno avuto interventi chirurgici al tendine d’achille o importanti problemi legati allo stesso, puoi renderti conto dell’importanza di tale dato.

L’Italia non riesce a sviluppare il talento dei propri atleti perché troppo spesso, gli stessi, sono costretti a richiudere le ali a causa di problemi fisici, legati SOLO ed ESCLUSIVAMENTE alla programmazione dell’allenamento.

Abbiamo lavorato, (e ancora “lavoriamo”) a intensità troppo alte. Il quattrocentista è un velocista che lavora ritmi mediamente troppo alti durante quasi tutti gli allenamenti che produce. L’impostazione classica, ci ha abituato a usare tantissimo volume di lavoro ma è lo svolgerlo ad intensità altissime ad aumentare la propensione agli infortuni.

 

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Da atleta che di successi in staffetta se ne intende….e alla luce di alcuni dei appena nomi citati…Non credi che con un po’ di coordinazione (tecnica) in più la 4×400 azzurra del recente passato abbia perso alcune opportunità di far bene anche all’aperto?
La preparazione 400 metri per molti anni in Italia, dai livelli più modesti fino alle eccellenze nazionali, ha significato sessioni di allenamento condite da grandi mal di testa, prove lattacide corse sul filo del volta stomaco e terminate spesso a carponi a bordo pista .
Generazioni di velocisti sono stati scoraggiati a passare dallo sprint puro alla velocità prolungata proprio alla luce dei “maltrattamenti” patiti dagli sfortunati compagni 400 isti.
Stiamo esagerando…ma non credi che forse abbiamo preso troppo alla lettera la definizione di “giro della morte”?

Queste considerazione mi trovano totalmente d’accordo. Il quattrocentista italiano medio non è un atleta felice. Bisogna semplicemente ritrovare la strada per lavorare serenamente senza la paura di un allenamento troppo intenso o “lattacido”. Allenamenti più estensivi, con tanto comparto aerobico a tolleranze lattacide sempre più corpose possono essere una soluzione. Ma non c’è una ricetta per andare forte. Credo fermamente che vada sempre rispettato il talento. L’atleta di talento ha semplicemente bisogno di costanza, non di nausee.

Poi bisogna anche guardare in faccia la realtà. Non potendo avere a che fare con “i grandi numeri” consideriamo duecentista qualsiasi atleta varchi la soglia dei 20″50. Nel panorama nazionale riesco a vedere dei grandi quattrocentisti rilegati alla “mezza distanza” un po’ per pigrizia, un po’ per malcostume. Secondo me infondo l’Italia ha più quattrocentisti di quanto non si accorga.

Per quanto riguarda la staffetta 4×400 credo che la Federazione stia facendo e abbia fatto il possibile per mettere nelle condizioni le squadre giovani di formarsi ed esprimersi al meglio. Se non ci sono stati risultati è perché un’intera generazione di atleti ha purtroppo perso di vista i propri obiettivi. Ricordo che per me andare in raduno o in trasferta era una festa ed una nuova esperienza ed addirittura che piansi quando assegnarono il “mio” mondiale Junior a Grosseto, pensavo che Grosseto fosse troppo a casa per un mondiale. Adesso, vedo delle facce diverse ai raduni.

 

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Cosa succede in questo senso in America e nelle altre nazioni che hai conosciuto?

Tante nazioni hanno adottato delle strategie di sharing-experiences. Raduni e incontri in diverse aree geografiche, approfittando del vantaggio offerto dalle diverse situazioni climatiche, lavorando sempre a climi miti e aprendosi al confronto con le diverse culture sportive degli esperti degli altri paesi con cui si viene a contatto. Belgio, Francia, Germania, Polonia, Usa, Jamaica, Cina sono tutte realtà atletiche “in movimento”.

 

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E per Claudio Licciardello qual è l’ingrediente fondamentale per preparare un 400?

Non mi permetto di dare una “ricetta dell’allenamento” perché non esiste. Si può sempre migliorare anche nel migliore dei casi. Quello che consiglio ai miei colleghi che si affacciano al mondo della preparazione atletica e di rispettare sempre il fisico e la mente degli atleti con cui collaborano. Ascoltare è il miglior feedback per preparare al meglio un’atleta al prossimo allenamento.

 

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Cosa rappresenta l’atletica per Claudio Licciardello oggi? Le scarpette sono definitivamente appese ad un chiodo? Chi è e cosa fa Licciardello fuori dalla pista?

In questo momento, lavoro nell’ufficio tecnico Fiamme Gialle e in collaborazione con il tecnico Porcelluzzi, ci occupiamo a 360° del settore velocità. Sono aspirante tecnico di secondo livello federale, nonché studente di scienze motorie ed il futuro è certamente con lo sport al centro della mia vita.

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Per me l’atletica è davvero stata tutto. Sono grato a tutti coloro abbiano speso anche una sola parola di apprezzamento nei miei confronti e a coloro i quali abbiano in qualche modo criticato qualche scelta fatta o presa. Sono un uomo migliore anche grazie a loro. 

Non posso non ringraziare la famiglia Fiamme Gialle per il modo in cui da sempre mi è stata vicino. Interlocutori esperti e grandi amici che mi hanno accompagnato durante tutto questo percorso. Mi vengono in mente il Col. Parrinello e il T.Col. Di Paolo quali guide di questa famiglia e spesso fratelli maggiori con autorevoli e affettuose strigliate, e il Direttore Tecnico Di Saverio e il Magg. Battella, cari amici a cui auguro di gestire la migliore rosa di sempre che è quella che verrà.

Nel tempo libero sono un appassionato di fotografia. Sono fotografo e content editor di un noto blog di moda (www.lespritrouge.com) ed ho aperto da qualche mese un sito personale dove amo esporre la mia idee di fotografia www.claudiolicciardello.com

Vi ringrazio davvero per queste interessati domande e vi faccio il più sincero in bocca al lupo per il vostro sito internet, e rinnovando gli auguri di un buon 2016 saluto tutti i lettori.

 

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Un grazie a Claudio per la grande disponibilità offerta.

Dalle sue parole siamo convinti che, anche se l’Italia dell’atletica ha perso un atleta, di certo sta guadagnando un tecnico.

Sottolineiamo e rimarchiamo queste sue parole “Non mi permetto di dare una ricetta dell’allenamento perché non esiste”. Questa è una frase che, a nostro avviso, ogni tecnico, anche il migliore, dovrebbe ricordarsi sempre…

 

A cura di Andrea Uberti

 

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Intervista a Stefano Baldini

19 Ottobre 2015 by Redazione

Stefano Baldini, un’icona del mezzofondo e del fondo Azzurri. Di sicuro non ha bisogno di grandi presentazioni, famoso, sia tra gli appassionati di atletica che tra i meno affezionati, per la spettacolare vittoria della Maratona Olimpica ad Atene 2004.
Un percorso da atleta lungo e ricco di successi, non soltanto nelle gare su strada, ma anche in pista, con 6 titoli italiani assoluti, una Coppa Europa e la partecipazione a 2 Europei, 2 Mondiali e a 1 Olimpiade.

Terminata la carriera da atleta ha cercato di trasmettere le sue esperienze da atleta di alto livello alle nuove generazioni, prima col ruolo di Tutor del Settore Giovanile Fidal (dal 2010 al 2012) ed in seguito di Direttore Tecnico del Settore Giovanile Fidal (dal 2012 in poi).

Ovviamente per arrivare a tale ruolo ha dovuto formarsi, ottenendo vari diplomi (Diploma al Corso di Management Sportivo della Luiss Business School-Scuola dello Sport Coni, Diploma al Corso per Direttore Tecnico Giovanile della Scuola dello Sport Coni, Allenatore 2° Livello Fidal, Diploma al Corso di Tecnico IV° Livello Europeo della Scuola dello Sport Coni).

Abbiamo intervistato Stefano, curiosi di sapere come sta andando il progetto del Settore Giovanile della Fidal.

Grazie Stefano per aver accettato il nostro invito.
È ormai terminata la stagione. A livello giovanile vi sono state grandi soddisfazioni per i colori azzurri, durante le manifestazioni mondiali ed europee. Segno che il lavoro e la programmazione pagano.
Le soddisfazioni non sono solo per i risultati in azzurro. Il settore giovanile è diverso dall’assoluto, dove si guardano i numeri nudi e crudi. Noi, e per noi intendo Società, Dirigenti, Tecnici, Atleti e Fidal, dobbiamo valutare un movimento nel suo complesso, dal corso di avviamento all’atletica di un qualsiasi campo sportivo alla gara di provincia, fino alla maglia azzurra. Quello che mi è piaciuto di queste tre stagioni è l’atteggiamento di tutti nei confronti del dialogo, della programmazione e della voglia di crescere, che ho ereditato dall’ottima gestione precedente e che spero di mantenere ed accrescere se possibile.

Quale è stato il risultato che più ti ha stupito?
Sicuramente le Staffette del miglio di Eskilstuna agli Europei Junior, quando si è creato un clima di squadra talmente favorevole che ha fatto si che ragazzi e ragazze abbiano dato il massimo. Eravamo l’unica nazionale al completo sugli spalti a fare casino. Davvero un gruppo di ragazzi eccezionali.

Stefano Baldini 3

Ora il compito più difficile è di riuscire a far corrispondere questi ottimi risultati anche in chiave assoluti. Come pensi di operare in merito?
Cerco di far passare il più possibile il messaggio che fino a Junior ci si allena all’atletica, che c’è tempo per maturare e crescere, soprattutto dopo. Ognuno di noi, che lavora coi giovani, è cosciente della responsabilità che ha e sa quel che deve fare per il meglio dei ragazzi. Per i grandi è stato scelto un modello tecnico ben preciso, spero possa dare frutti a medio-lungo termine.

Questi risultati dimostrano che anche i tecnici italiani meritano considerazione. Qual è stato il rapporto che hai avuto con loro durante questo percorso?
Abbiamo tecnici di ottimo livello, con tutti ho avuto un buon rapporto anche nella discussione, a volte accesa. Peccato che molti non abbiano il tempo che meriterebbero per stare sul campo ad allenare, confrontarsi e crescere. In giro per il mondo ce ne saranno anche di migliori, ma io mi tengo volentieri questi. Se mi paragono con nazioni che hanno decine di Prof. distaccati dalla scuola o professionisti, devo dire che l’atletica italiana giovanile fa davvero i miracoli.

Ha stupito i più la scelta di fermare Filippo Tortu. Dalla nostra pagina abbiamo elogiato la scelta. Cosa ne pensi?
Scelta assolutamente ragionevole, che ho appoggiato dall’inizio. Salvino, Filippo, e l’Atletica Riccardi pensano al futuro, modello da seguire.

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Ci avviciniamo a RIO 2016, secondo te quanti dei giovani protagonisti di questa stagione potremo vedere impegnati alle Olimpiadi?
Almeno un paio, e se non passeranno un turno, saranno aria fresca per la squadra.

Che consiglio ti senti di dare ad un tecnico che allena il settore giovanile ed ha tra i suoi atleti un potenziale talento?
Di rispettare le tappe di passaggio fondamentali di costruzione. Età biologica, numero di ore dedicate allo sport fino a quel momento, maturazione psicologica, interiorizzazione di gesti tecnici e tattiche di gara. Infine anche utilizzo di cronometro e fettuccia.

Come consigli di gestire i primi risultati positivi che arrivano?
Facendo il pompiere. I risultati servono come verifica del lavoro svolto e per stimolare l’ambiente di un campo. Ricordiamo ai ragazzi, che tendono a “battezzare” subito chi ha talento e chi no, che si può arrivare a ottimi risultati anche senza sembrare in partenza dei fenomeni.

Fino a che età è consigliabile vivere l’atletica quasi come un gioco ed a che età è invece bene iniziare a fare sul serio intensificando gli allenamenti?
Un ragazzo che ha iniziato dalla categoria ragazzi, da secondo anno Junior può iniziare a fare un po’ più sul serio, allenandosi tutti i giorni in modo adeguato alla sua maturità psicofisica.

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Quest’anno il movimento dell’atletica italiana giovanile ha fatto un passo in avanti davvero notevole. Così tante medaglie a livello mondiale ed europeo non si vedevano da parecchi anni. Cosa ha portato a dei risultati così interessanti?
Nel totale abbiamo preso una medaglia in più del 2013, quando con gli Junior giocavamo in casa a Rieti, quindi si è mantenuto un alto rendimento internazionale. Se facciamo il confronto con edizioni di Europei Junior da una medaglia sola all’attivo dobbiamo sorridere ma ripeto, i metalli under 20 hanno importanza relativa, l’atletica da professionista e professionale inizia poi.

La tua storia di campione di maratona è famosa in tutto il mondo. Quali sono state le emozioni più grandi nella tua carriera?
Tutte le prime volte hanno avuto un sapore speciale, davvero tante soddisfazioni nei 20 anni trascorsi tra la prima e l’ultima maglia azzurra. Ovviamente Atene 2004 è stato il top, ma lo score sarebbe stato ugualmente migliore di qualsiasi bel sogno di ragazzo.

19th European Athletics Championships - Day 7

Ci racconti brevemente qual è stato il tuo percorso che ti ha portato a vincere l’olimpiade di Atene sulla distanza dei 42km? Una costruzione tecnica e fisica lunga e partita da lontano immaginiamo.
Sono partito dal mezzofondo veloce e mi sono specializzato sempre più sul prolungato. Da Junior Europei e Mondiali sui 5000, poi Coppa Europa e Giochi di Atlanta sempre in pista. Da li è stato inevitabile scegliere: le attitudini erano quelle del maratoneta di tipo veloce. Non ho mai abbandonato la pista, la palestra e il cross per preparare al meglio la strada. Ho avuto solo due allenatori. Benati fino a quando il suo lavoro gli ha permesso di seguirmi nei ritagli di tempo, poi dai 21 anni Gigliotti. La particolarità è che è stato proprio Benati a chiedere a Lucio di allenarmi, assecondando le mie ambizioni nello sport da professionista a tempo pieno piuttosto che le sue (legittime) di allenatore part-time. Non finirò mai di ringraziarlo.
Alla terza maratona ho battuto il record italiano di Bordin, alla sesta ho vinto gli Europei e, dopo qualche infortunio di troppo, tra il 2001 e il 2004, da atleta ormai maturo, nove maratone una meglio dell’altra fino a Atene, dove sono riuscito a condensare nelle due ore più importanti tutte le esperienze fatte. Era la maratona numero 17, me ne sono accorto dopo.
Qui la video-intervista ad Emilio Benati.

Qualche atleta potrebbe ripercorrere la tua carriera diventando un ottimo maratoneta?
Ci sono ragazzi che hanno possibilità infinite, che hanno fame e voglia di fare, lunghe distanze incluse. Dobbiamo toglierci quel velo di pigrizia figlio delle comodità e andare a fare atletica dove ci sono le condizioni migliori per farla. L’alto livello è una piccola parentesi durante la vita, vale davvero la pena di affrontarla al meglio.

Quali sono state le mosse, come responsabile tecnico giovanile, che hanno portato agli ottimi risultati di questa stagione?
Come dicevo, l’atletica giovanile ha radici profonde in tutta Italia, più concentrate al centro-nord, fatte di società e tecnici che sono il vero oro dell’atletica Italiana. Il grazie va a loro, io devo soltanto buttare benzina sul fuoco delle motivazioni delle persone e usare tutto l’equilibrio e il buon senso che mamma e papà mi hanno regalato.

Grazie a Stefano per la grande disponibilità!!!

Roberto Goffi

 

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Intervista a Yohanes Chiappinelli e Maurizio Cito

21 Luglio 2015 by Redazione

Di seguito presentiamo l’intervista a Yohanes Chiappinelli, neo Campione Europeo Juniores nei 3000 siepi, e al suo coach Maurizio Cito, giovane tecnico toscano che lo segue fin dalla categoria Cadetti.

Iniziamo con le domande a Maurizio per comprendere cosa c’è dietro a questo bellissino Oro Europeo.

Per leggere l’intervista a Yohanes andate sulla seconda pagina dell’articolo (cliccate il numero 2 in alto a o in basso a sinistra)

Ciao Maurizio, parlaci un pò di te, delle tue esperienze e della tua filosofia di allenamento.
Ho iniziato a correre nel 2000 da primo anno cadetto e nel 2007, per gioco, ho conseguito il primo livello da Tecnico Fidal (il corso era stato fatto a Siena pista in cui opero!!).
Ho iniziato ad allenare realmente dal 2009 a seguito di alcune delusioni sportive dovute soprattutto a un errato percorso tecnico seguito nelle categorie giovanili, da qui la mia filosofia di crescere l’atleta rispettando i tempi fisiologici di sviluppo e puntando molto sulla stimolazione delle fasi sensibili; a 14-15 si devono creare i presupposti condizionali e coordinativi per poter poi sopportare sia la mole di lavoro futura sia avere una molteplicità di mezzi da poter inserire nel proseguo vita atletica del ragazzo!
Nel 2011 ho frequentato e superato il corso di allenatore di secondo livello, nel 2015 sono diventato docente e formatore Fidal e sto frequentando il corso di allenatore specialista (3° livello).

Yohanes, in Svezia, ha dominato i 3000 siepi con una gara subito all’attacco e chiusa in 8’47”58. Un risultato che vi aspettavate? Avevate deciso insieme una partenza così aggressiva?
Avevamo costruito la gara così ed è andata perfettamente secondo i piani ci aspettavamo un crono migliore ma con quel vento era impossibile correre forte ma l’importante era vincere, la strategia era di partire ai 200 metri subito al primo ostacolo così da cogliere di sorpresa gli avversari mettere un ritmo da capogiro come solo Yohanes sa fare e sperare che gli avversari si attaccassero, così è stato tempo 4 giri hanno pagato caro lo sforzo iniziale!!! Ovviamente a Said e Simone avevamo detto di stare in fondo al gruppo perché sapevano di questa cosa e di fare una gara d’attesa così da riprendere i vari “cadaveri” durante il Km finale, così è stato con Colombini addirittura 4° in finale, peccato per Said solo 13° bloccato nell’ultimo mese da magagne fisiche!

Yohanes è uno dei talenti della Nazionale Juniores nei 3000 siepi, quali sono stati, a tuo avviso, i punti chiave dei suoi risultati in questi anni?
Yohanes ha delle doti innate sopraffine, sicuramente il lavoro di correzione tecnica della corsa e un lavoro massiccio sulla reattività e forza esplosiva in un’età sensibile hanno reso in discesa il suo percorso nelle siepi nonostante la sua statura!

Quali sono i vostri obiettivi per il futuro?
Yohanes ha 17 anni e ancora frequenta le superiori e fino alla maturità gli impegni agonistici saranno le manifestazioni di categoria (europei e mondiali) mentre gli obiettivi tecnici proseguiranno sulla strada percorsa fino adesso e quindi di ampliare ulteriormente le sue conoscenze motorie e consolidare ciò che di buono è stato già fatto!

Come pensi di accompagnarlo in questo percorso?
Ogni anno stilo una programmazione in cui gli stimoli allenanti differiscono sia per intensità sia per volume sia per densità e ogni anno inserisco nuovi mezzi anche in base a quello che noto così da personalizzare al meglio il suo programma, il tutto rispettando la legge della progressività ad esempio Yohanes nell’inverno 2013 (in vista di Eugene 2014) correva 60 Km settimanali mentre nell’inverno 2014 (previsione Eskilstuna 2015) ne ha corsi 75. Sono volumi bassi ma non perché sono un allenatore “leggero” alcune sue sedute di allenamento durano anche 3 ore ma in questo periodo del suo percorso atletico mi interessano maggiormente altri aspetti.

Secondo te quali sono le difficoltà principali che un allenatore deve affrontare nella preparazione e nella costruzione tecnica di un siepista?
Se un atleta è portato per quella specialità, non ci sono grosse difficoltà nell’avviamento delle siepi anzi a mio avviso sono anche meno monotone come proposta allenante, i problemi sussistono quando in età giovanile non è stato lavorato in modo corretto e viene meno il bagaglio motorio, correggere un ragazzo di 20 anni che corre da 5, col solo obiettivo di conseguire una prestazione trascurando il resto, diventa veramente difficile perché bisogna in primis far prendere coscienza dell’errore poi cancellarlo dopo di che correggerlo e infine consolidare lo schema motorio corretto…in bocca al lupo!!!

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In base alla tua esperienza da allenatore, quali sono i punti fondamentali in un buon programma di allenamento, il mezzofondo ed in particolare per le siepi?
Un buon programma di allenamento più che paragonarlo a una ricetta con “l’ingrediente segreto” lo paragonerei a un bel vestito su misura, perciò è da valutare da atleta ad atleta sia per caratteristiche tecniche, che psicologiche, che fisiologiche! Questo fa capire quanto sia importante osservare monitorizzare e testare il proprio atleta proprio per conoscere come risponde alle varie proposte allenati così da poter stilare un programma sempre più su misura. Per le siepi sicuramente la mia filosofia è di inserire costantemente negli allenamenti con gli ostacoli durante l’anno: ho notato che molti sono dei buoni mezzofondisti che un mese prima della gara si improvvisano siepisti facendo 10×400 con 4-5 Hs!!!

A tuo avviso, quali sono le difficoltà principali che un allenatore di atletica leggera deve affrontare nel nostro paese?
La mancanza di risorse e la consapevolezza che a oggi questo ruolo non potrà mai diventare un lavoro vero e proprio ad eccezione dei pochi atleti, riconvertiti in tecnici dei gruppi sportivi militari che comunque lavorano con atleti già formati, il restante della categoria si basa sul volontario e questo è causa diretta di una mancanza di professionalità e responsabilità soprattutto in quelle fasce di età dove a maggior ragione gli atleti andrebbero tutelati maggiormente a livello tecnico!

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Quali sono le figure che hanno ispirato il tuo modo di allenare?
Nella mia carriera atletica ho avuto tre allenatori e tutti e tre hanno dato le basi al tecnico che sono oggi. Il primo mi ha trasmesso carisma, leadership e soprattutto tanta motivazione per intraprendere questo percorso dopo le mie esperienze poco felici in età giovanile. Il secondo Claudio Pannozzo è quello che mi ha aperto a un concetto metodologico e tecnico su come allenare e far crescere un ragazzo in eta giovanile mentre il terzo Tiziano Marzotti mi ha trasmesso l’importanza di capire su quali substrati lavoriamo a ogni seduta di allenamento e perciò un modello più fisiologico. Poi la fortuna di allenare un talento come Yohanes mi ha dato l’occasione di avere delle vie preferenziali per confrontarmi con allenatori italiani di altissimo spessore come il compianto Arcelli, Gigliotti, Dotti, Incalza, Ghidini e molti altri.

Si parla molto del modo di allenare all’estero, consa ne pensi? Pensi che in Italia gli allenatori siano così inferiori rispetto a quelli delle altre nazioni?
Nel mezzofondo va molto di voga il modello americano dell’Oregon Project, ma onestamente oltre che vedere video con apparecchi fantascientifici e qualche programma, dove un pò di spunti li ho presi anche io, per il resto conosco poco del loro modello di allenare anche perché quello che trovo spesso è solo come pubblicizzarlo!

Inoltre ho avuto un esperienza diretta col modello americano collegiale grazie ad una mia atleta partita alla volta degli states dopo aver ricevuto una borsa di studio sportiva e ho visto come lavorano e diciamo che non condivido quasi niente di quello che fanno:

  • Nessuna programmazione, tutti si allenano con lo stesso programma e fanno le gare necessarie all’università finalizzandole al bisogno
  • Nessun tipo di test
  • Nessuna tutela per la crescita e l’integrità dell’atleta, questa ragazza, durante i loro campionati indoor, in 24 ore ha corso 5 gare (800Q-1500Q-3000F-800F-1500F)

Il loro grosso pregio sta nell’avere alla base un sistema di assistenzialismo (fisioterapie-strutture-psicologi etc etc.) molto efficiente rispetto al nostro ed inoltre hanno delle gare spettacolari. Il primo problema italiano sta proprio nella difficoltà di trovare gare!

In conclusione penso che per ottenere un risultato ci siano più strade buone percorribili e la via più sicura è quella che conosciamo meglio e non quella maggiormente pubblicizzata quindi sono un forte sostenitore dei tecnici italiani e ritengo frustante il fatto di essere denigrati gratuitamente da tecnici esteri solo per la mancanza di “curriculum”, dietro a un risultato ci dovrebbe essere un sistema efficiente che in Italia a oggi è ridicolo rispetto ai paesi emergenti.

Cosa ti piace dell’atletica leggera, rispetto ad altri sport?
La sua oggettività e la sua misurabilità!

Il consiglio che daresti ad un giovane che vorrebbe iniziare a fare il tecnico di atletica?
Di affiancarsi a un tecnico valido e di fare gavetta anche in più specialità, ho allenato la marcia per due anni sotto stretta sorveglianza di Marco Ugolini e devo dire che mi ha fatto notare delle cose sotto altre prospettive che tutt’ora mi tornano utili.

Yohanes è uno degli atleti under 20 inseriti nel progetto Fidal, iniziato lo scorso anno, in previsione delle Olimpiadi di Rio del prossimo anno. Dopo gli Europei partirà per il Brasile per uno stage di allenamento, con test fisici e medici giornalieri. Cosa ne pensi dell’iniziativa?
Il progetto più che di allenamento sarà di ricerca, sicuramente sarà una bella esperienza e magari riuscirò ad avere dei dati spendibili. L’unica cosa che mi lascia perplesso è che ragazzi così giovani siano così impegnati in viaggi e manifestazioni in giro per il mondo, questo mi fa paura soprattutto nelle categorie allievi.

Nella seconda pagina dell’articolo l’intervista a Yohanes

Immagine di copertina realizzata e gentilmente concessa da Ph. Andrea Bruschettini

Ecco gli altri contributi di Maurizio:

Maurizio Cito: l’allenamento di Yohanes Chiappinelli da Cadetto 

Maurizio Cito: programmazione stagione 2015-16 di Yohanes Chiappinelli (3000 siepi) 

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Perchè Lavillenie è il miglior saltatore con l'asta al mondo?

26 Giugno 2015 by Redazione

Sul profilo di facebook della IAAF è stata caricata una breve intervista al Coach di Renaud Lavillenie, Philippe D’Encausse.

La domanda era:

Perchè Renaud Lavillenie è il saltatore con l’asta più forte al mondo?

Questa la risposta, veramente sintetica:

  1. È il corridore più veloce mentre impugna un’asta.
  2. Non ha paura.
  3. Egli vuole essere il migliore.

Ecco il video dell’intervista:

 

Insomma, sembra che il saltatore con l’asta moderno debba essere dotato di grandi doti di velocità e ovviamente questa velocità deve saperla sfruttare durante la gara, deve avere una buona dose di incoscienza e deve aver voglia di darsi da fare per migliorare sempre di più!

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